Primo Levi definitivo

Vita e  opere di Primo Levi

Levi era parco, sobrio, discreto, molto gentile. E io ero affascinato non soltanto dalla precisione espressiva dei suoi libri, dalle sue conoscenze plurime e dettagliate, dalla sua memoria cospicua, ma anche dalla sua attitudine all’accoglienza e dalla sua indubbia e speciale capacità di comunicare con esattezza e asciuttezza di parola, in cui vibrava tuttavia una corda non priva di qualche riverbero di malinconia, da quella sua capacità di evitare le cornicette e fondare invece la sua scrittura sulla ricca e ornata sobrietà di linguaggio, sull’eleganza netta della parola-cosa.

Primo Levi – Io che vi parlo – Conversazione con Giovanni Tesio Einaudi, Torino,  2016 pag. VII.

Links
http://www.ildialogo.org/storia/dignitaumana26012006.htm
http://www.filosofico.net/Antologia_file/AntologiaL/Levi_05.htm

Fonti: PAGINA DI WIKIPEDIA DEDICATA ALL’AUTORE
http://it.wikipedia.org/wiki/Primo_Levi
Primo Levi è stato uno scrittore italiano, autore di racconti, memorie, poesie e romanzi.
Nel 1944 venne deportato nel campo di sterminio di Auschwitz. Il suo romanzo “Se questo è un uomo”, che racconta le sue esperienze nel lager nazista, è considerato un classico della letteratura mondiale.
Primo Levi venne trovato morto nell’aprile 1987 alla base della scalinata di casa sua, l’ipotesi più probabile è che si sia suicidato..

Biografia
Nato a Torino nel 1919 da una famiglia di origini ebraiche proveniente dalla Provenza e dalla Spagna, Primo Levi visse un’infanzia turbata da alcune incomprensioni con il padre, dovute ad una notevole differenza di età e differenze di carattere. Studiò al Liceo classico Massimo d’Azeglio di Torino, noto per aver ospitato docenti illustri e oppositori del fascismo come Cesare Pavese e molti altri. Questi insegnanti furono però allontanati e il clima politico nella scuola cambiò radicalmente. Primo Levi prediligeva le materie scientifiche poiché le materie letterarie erano distorte dalla propaganda fascista, per cui si iscrisse al corso di laurea in chimica presso l’Università di Torino. Questa scelta gli permise di analizzare con atteggiamento scientifico e rigoroso distacco la anche la crudele realtà del Lager.

Studi universitari e prime esperienze lavorative
Nel 1937 si diplomò in fisica con lode poiché nessun professore di chimica voleva prendersi la responsabilità di laureare un ebreo. Nel novembre del 1938 entrano infatti in vigore in Italia le leggi razziali, dopo che in Germania l’antisemitismo si era manifestato attraverso atti di violenza e sopraffazione. In quel periodo suo padre si ammalò di tumore. Le conseguenti difficoltà economiche e le leggi razziali resero affannosa la ricerca di un impiego. Venne assunto in maniera semi illegale da un’impresa, con il compito di trovare un metodo economicamente conveniente per estrarre le tracce di nichel. A questo periodo risalgono i primi esperimenti letterari, due brevi racconti pubblicati molti anni dopo all’interno della raccolta Il sistema periodico.
Nel 1942 si trasferì a Milano dove, assieme ad alcuni amici, venne in contatto con ambienti antifascisti militanti ed entrò nel Partito d’Azione clandestino. (vedi Emilio Lussu)

Nel campo di Auschwitz
Nel 1943 si inserì in un nucleo partigiano operante in Val d’Aosta. Poco dopo, nel dicembre 1943, venne arrestato dalla milizia fascista e trasferito nel campo di transito di Fossoli in provincia di Modena.
Il 22 febbraio 1944, Levi ed altri 650 ebrei vennero stipati su un treno merci (oltre 50 individui per vagone) e destinati al campo di concentramento di Auschwitz in Polonia. Levi fu qui registrato (con il numero 174.517) e subito condotto al campo di Buna-Monowitz, allora conosciuto come Auschwitz III, dove rimase fino alla liberazione da parte dell’Armata Rossa, avvenuta il 27 gennaio 1945. Fu uno dei venti sopravvissuti fra i 650 che erano arrivati con lui al campo.
Levi attribuì la sua sopravvivenza a una serie di incontri e coincidenze fortunate. Innanzitutto, leggendo pubblicazioni scientifiche durante i suoi studi, aveva appreso un tedesco elementare. In un secondo momento, verso la fine del 1944, venne esaminato da una commissione di selezione, incaricata di reclutare chimici per la Buna, una fabbrica per la produzione di gomma sintetica. Insieme ad altri due prigionieri (entrambi poi deceduti durante la marcia di evacuazione) ottenne un posto presso il laboratorio della Buna, dove svolse mansioni meno faticose ed ebbe la possibilità di contrabbandare materiale con il quale effettuare transazioni per ottenere cibo (questo fatto probabilmente generò forti sensi di colpa in lui dopo la liberazione). Nel far ciò si avvalse della collaborazione di un altro prigioniero a cui era molto legato, Alberto, anch’egli italiano, che morì durante le terribili marce di trasferimento da un acmpo all’altro negli ultimi giorni di guerra. Venne anche aiutato da un italiano di nome Lorenzo, che lavorava in Germania ma non era detenuto, il quale con grande rischio gli faceva avere nascostamente del cibo. Infine, nel gennaio del 1945, immediatamente prima della liberazione del campo da parte dell’Armata Rossa, si ammalò di scarlattina e venne ricoverato nel Ka-be (infermeria del campo), scampando così fortunosamente alla marcia di evacuazione da Auschwitz. Il viaggio di ritorno in Italia, narrato nel romanzo La tregua, sarà lungo e travagliato. Si protrarrà fino ad ottobre, attraverso Polonia, Bielorussia, Ucraina, Romania, Ungheria, Germania ed Austria.
Chimico e scrittore
L’esperienza nel campo di concentramento lo sconvolse profondamente fisicamente e psicologicamente. Giunto a Torino, si riprese fisicamente e riallacciò i contatti con i familiari e gli amici superstiti dell’Olocausto.  Venne assunto in una fabbrica di vernici e lavorò per molti anni come chimico, conciliando in sè cultura scientifica e tecnologica e cultura umanistica. Mosso dalla prorompente necessità di testimoniare l’incubo vissuto nel lager, si gettò febbrilmente nella scrittura di un testo che fosse testimonianza della sua esperienza ad Auschwitz e che verrà intitolato Se questo è un uomo. In questo periodo conobbe Lucia Morpurgo, che diventerà sua moglie. Levi ebbe poi ad affermare che questo incontro sarebbe stato fondamentale per la stesura di Se questo è un uomo, permettendogli di passare dalla prospettiva dolorosa di un convalescente a quella descritta dall’autore nel libro Il sistema periodico con queste parole: “un’opera di chimico che pesa e divide, misura e giudica su prove certe, e s’industria di rispondere ai perché“. Nel 1947 terminò il manoscritto, ma molti editori, tra cui Einaudi, lo rifiutarono per paura di impressionare il pubblico. Venne pubblicato nel 1958 (dieci anni dovettero passare per iniziare a parlare dell’ Olocausto, segno di una grossa difficoltà a far emergere la verità, la storia dei lager che, se allora era difficile per gli uomini, per le donne lo era maggiormente perché venivano accusate di essersi prostituite per salvarsi), da un piccolo editore, De Silva. Nonostante la buona accoglienza della critica incontrò uno scarso successo di vendita.
Nel 1956, a una mostra sulla deportazione a Torino, incontrò uno straordinario riscontro di pubblico. Riprese così fiducia nei propri mezzi espressivi. Partecipò a numerosi incontri pubblici (soprattutto nelle scuole) e ripropose Se questo è un uomo ad Einaudi, che decise di pubblicarlo. Questa nuova edizione incontrò un successo immediato, infatti egli scriveva bene e con onestà di fondo in quanto credeva fortemente nel suo compito di testimone, senza preoccuparsi di nemici che si sarebbe fatto parlando di verità così scomode.
Nel 1959 collaborò alle traduzioni in inglese e in tedesco. Quest’ultima traduzione era particolarmente significativa per Levi. Uno degli obiettivi che si era proposto scrivendo il suo romanzo era far comprendere al popolo tedesco che cosa era stato fatto in suo nome e di fargliene accettare una responsabilità almeno parziale.
Incoraggiato dal successo internazionale, nel 1962, quattordici anni dopo la stesura di Se questo è un uomo, incominciò a lavorare a un nuovo testo sul viaggio di ritorno da Auschwitz che venne intitolato La tregua.
Nella sua produzione letteraria successiva, prendendo spunto dalle sue esperienze come chimico, l’osservazione della natura e l’impatto della scienza e della tecnica sulla quotidianità diventarono lo spunto per originali situazioni narrative.
Provò a scrivere anche alcune poesie che però non ottennero molto successo. La più famosa è sicuramente “Shemà”, nella quale egli manifesta l’ incubo dei superstiti dei lager, quello di non essere creduti una volta tornati a casa a raccontare quelle atroci verità; allo stesso tempo Levi intima con una maledizione biblica di ricordare l’Olocausto e di non minimizzarlo come andava facendo il revisionismo storico.

Gli anni Settanta e Ottanta
Nel 1975 decise di andare in pensione e di dedicarsi a tempo pieno alla sua attività di scrittore. Nello stesso aLa zona grigia e la  La vergognanno uscì la raccolta di racconti Il sistema periodico, in cui episodi autobiografici e racconti di fantasia vengono associati ciascuno ad un elemento chimico.
Nel 1978 pubblicò La chiave a stella. Questo romanzo, concepito durante i suoi numerosi soggiorni lavorativi, rappresenta un omaggio al lavoro creativo ed in particolare a quel gran numero di tecnici italiani che hanno lavorato in giro per il mondo a seguito dei grandi progetti di ingegneria civile portati avanti dall’industria italiana dell’epoca (anni Sessanta e anni Settanta). Nel saggio I sommersi e i salvati (1986) tornò per l’ultima volta sul tema dell’Olocausto, cercando di analizzare con distacco la sua esperienza, chiedendosi le ragioni dei diversi comportamenti dei deportati di Auschwitz e perché alcuni siano sopravvissuti e altri no. In particolare estese la sua analisi a quella che definì “zona grigia”, rappresentata da quegli ebrei che si erano prestati a lavorare per i tedeschi controllando gli altri prigionieri nei campi di concentramento.

L’11 aprile del 1987 Primo Levi morì gettandosi dalla propria dimora di Torino. Questa ipotesi appare avvalorata dalla difficile situazione di salute di Levi unita al tormento mai superato per il ricordo del lager, sicché egli sarebbe in un qualche modo una vittima ritardata della detenzione ad Auschwitz. Il suicidio di Levi rimane comunque un’ipotesi contestata da molti (ad esempio Rita Levi Montalcini), poiché lo scrittore non aveva dimostrato in alcun modo l’intenzione di uccidersi e anzi aveva dei piani in corso per l’immediato futuro.
Dopo le esperienze in lager, Primo Levi inizò ad interessarsi della cultura ebraica che egli aveva scoperto ad Auschwitz, nonostante ciò si oppose alla violenza che gli ebrei israeliani stavano compiendo nei riguardi dei Palestinesi.

Scheda riassuntiva di “Se questo è un uomo” e commento
Rielaborazione da:
http://trucheck.it/italiano/14962–se-questo-%C3%A8-un-uomo-,-primo-levi.html (Laura Cailotto) e da https://codolini.wordpress.com/letteratura-italiana/autori-e-argomenti-di-lettetatura-italiana-ordine-cronologico/4il-novecento/il-romanzo-italiano-del-novecento/primo-levi/se-questo-e-un-uomo/

GENERE: testo autobiografico che rientra nella memorialistica di guerra ma contiene numerose osservazioni di carattere storico e sociologico.

Secondo quanto afferma lo stesso autore, questo libro in fatto di particolari atroci, non aggiunge nulla a quanto ormai è noto ai lettori di tutto il mondo sull’inquietante argomento dei campi di concentramento. Esso non è stato scritto da Levi allo scopo di formulare nuovi capi di accusa; potrà piuttosto fornire documenti per non dimenticare e continuare a ricordare in modo che questi fatti orribili non si possano più ripetere.
Come intenzione e come concezione esso è nato già fin dai giorni di Lager per il bisogno di raccontare agli altri, e di fare gli altri partecipi, questo per i prigionieri aveva assunto , prima della liberazione e dopo, il carattere di un impulso immediato e violento, tanto da rivaleggiare con gli altri bisogni elementari. Il libro è stato scritto in primo luogo a scopo di liberazione interiore; per questo nel corso della la narrazione si manifestano chiaramente anche se sobriamente e in modo compatibile con l’oggettività scientifica il dolore, la sofferenza, la distruzione interiore e fisica dovute alle disumane condizioni di vita imposte nel Lager. Questo libro, secondo Levi, fornisce molti elementi per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano. Anche il titolo “Se questo è un uomo” (tratto da una poesia dello stesso autore) invita il lettore a meditare su quello che noi intendiamo per dignità e che i nazisti hanno tentato di togliere alle loro vittime. Possono ancora essere considerati uomini o donne prigionieri che lavorano nel fango, che non conoscono pace, che lottano per un pezzo di pane, che muoiono per un sì o per un no, senza capelli e senza nome, senza più forza di ricordare? (Citazione di Shemà) Le pagine “trasudano” sofferenza, una sofferenza vissuta con la massima dignità che un “uomo” riesce a mantenere nelle condizioni nelle quali è costretto a vivere all’interno di un campo di concentramento. A maggior ragione, devono essere considerati uomini i loro persecutori, che hanno progettato e tentato di eseguire lo sterminio di intere categorie di quelli che loro consideravano “untermenschen” (sotto-uomini)?
Primo Levi, nello scrivere questo testo, ha assunto deliberatamente il linguaggio pacato e sobrio del testimone, non quello lamentevole della vittima né quello irato del vendicatore poiché pensava che la sua parola sarebbe stata più credibile ed utile quanto più apparisse obiettiva e quanto meno suonasse appassionata; solo così il testimone in giudizio adempie alla sua funzione, che è quella di preparare il terreno al giudice.
Nel secondo capitolo del libro intitolato “Sul fondo” più volte l’espressione ricorre: giacere sul fondo, eccomi sul fondo, viaggio… verso il fondo, premuti sul fondo. Qui Levi introduce poi nel libro riferimenti alla Divina Commedia, in particolare ai primi canti dell’Inferno. Il paragone è spontaneo, dato che i deportati sentibano di essere giunti ad un luogo di vera e propria dannazione.Occorre ricordare che, nella geografia dantesca, l’inferno è una voragine a forma d’imbuto che si apre nell’emisfero boreale, sotto Gerusalemme, e termina al centro della Terra, dove si trova Lucifero.
Nel testo  il fondo è metafora del campo di annientamento, dove viene annullata la dignità umana: l’uomo è ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e di discernimento…
Il soldato che fa loro la guardia sul camion che li porta in lager è definito Caronte,la prima giornata nel lager è definita antinferno.
La diversità tra la vita nel Lager e la vita precedente all’internamento è spiegata dallo scrittore con una citazione dantesca.
” … Qui non ha luogo il Santo Volto,
qui si nuota altrimenti che nel Serchio!”
Con queste parole si rivolgono i diavoli di Malebolge all’anima dannata di un lucchese, appena giunta all’inferno, a sottolineare con ironica perfidia la differenza tra la vita terrena e la vita nell’inferno. Anche nel Lager tutto è stravolto, non hanno più alcun valore le regole del vivere civile. Viene anche commentato il canto di Ulisse, che Primo Levi cerca di ripetere a memoria ad un suo compagno di prigionia.. Attraverso questi elementi possiamo capire che Levi è stato un uomo di grande cultura, capace di scrivere in modo molto raffinato e di fare numerosi riferimenti alla letteratura, storia e filosofia di tutte le epoche senza però perdere in chiarezza o voler utilizzare lessico e stile di difficile comprensione.

Quando arrivò nel campo di raccolta di Fossoli, gli ebrei erano 150 circa, ma in poche settimane raggiunsero il numero di 600. Si trattava di intere famiglie giunte lì per diversi motivi: alcune erano state catturate dai tedeschi, altre si erano consegnate spontaneamente per non andare contro la legge, per non abbandonare amici… Il 20 febbraio alcune SS ispezionarono il campo e il giorno seguente Levi seppe che l’ indomani tutti gli ebrei sarebbero partiti per Auschwitz: allora un nome privo di significato. Il viaggio fu lungo e molto faticoso, il treno viaggiava lentamente, con lunghe soste snervanti; tutti soffrirono la fame, la sete, l’insonnia e la fatica. Arrivati a destinazione scesero coi bagagli e dopo aver risposto ad alcune domande da parte dei tedeschi furono divisi: donne e uomini, vecchi e giovani, sani e malati, madri e figli. Levi venne assegnato al gruppo degli uomini validi per lavorare nel Reich e da quella notte non rivide più donne, bambini e anziani. Dopo un po’ di tempo venne trasferito in un posto nuovo sul cui ingresso si leggeva “il lavoro rende liberi”, ma si trattava di un terribile atto di disprezzo.
Primo Levi ed alcuni compagni furono condotti in una camera vasta e umida, si dovettero spogliare, fare un fagotto con le loro vesti e donarle ad un SS; in seguito vennero rasati e dovettero indossare pantaloni e camicia a righe.
Ad un certo punto videro un deportato che parlava l’italiano, tutti gli fecero delle domande e lui spiegò loro che si trovavano a Monowitz, vicino ad Auschwitz, in un campo da lavoro in cui tutti i prigionieri lavoravano in una fabbrica di gomma chiamata Buna. Dopo aver fatto la doccia ed essere stati disinfestati vennero tatuati sul braccio sinistro con un numero personale. Levi era il 174517. Egli da quel momento perse ogni diritto e fu costretto a lavorare come schiavo, mentre le persone considerate inadatte al lavoro erano state mandate in gas all’insaputa di coloro che erano stati scelti per lavorare. Poco per volta l’ autore capì di trovarsi in una specie d’inferno e scoprì che il campo era diviso in 60 baracche di legno chiamate Block di cui 10 in costruzione, in più in alcuni blocks erano riservati a scopi particolari, come le docce, l’infermeria, le cucine… I comuni blocks di abitazione erano divisi in due stanze: in una viveva il capo baracca e nell’altra c’era il dormitorio con 148 cuccette a tre piani divise da tre corridoi, queste erano composte da una tavola di legno, da un sacco di paglia e da due coperte ciascuna. Gli ospiti nel campo erano divisi in diverse categorie, in particolare tre  erano qelle più numerose: i criminali, che oltre al numero portavano un triangolo verde; i politici con un triangolino rosso e gli ebrei con la stella ebraica, rossa e gialla. Levi imparò presto ad arrangiarsi e a cercare di ottenere il massimo da tutte le situazioni. Il lavoro era un insieme di leggi, problemi e difficoltà.
I prigionieri erano divisi in 200 Kommandos, ciascuno con un compito ben preciso. Il lavoro era molto duro, solitamente si trattava di trasportare materiali molto pesanti.
L’ orario variava in base alle stagioni. La vita nel campo era dunque questa: uscire, rientrare, lavorare, dormire, mangiare, ammalarsi, guarire o morire. E tutto questo fino a quando? Questa era la domanda che si facevano tutti gli internati.
Dopo alcuni giorni di trasferimenti, Levi venne assegnato al block numero 30; tutte le mattine si alzava, correva al lavatoio che era sempre molto affollato, mangiava la sua misera razione di pane e andava al lavoro. Un pomeriggio, però, mentre trasportava un pezzo di ghisa ebbe un incidente e si tagliò il piede sinistro. La ferita non era grave, ma comunque andò in infermeria, ka-be; qui venne visitato numerose volte e dopo venti giorni circa fu dimesso. In Ka-Be venne per la prima volta a sapere delle selezioni, la prima delle quali colpisce, ad esempio, un detenuto di nome Shmulek, il quale aveva spiegato, a lui che era incredulo, la realtà dell’eliminazione col gas dei più deboli e di coloro che non ernano più in grado di lavorare. Dopo poco tempo però, viene dimesso e portato in un’altra baracca dove ritrova l’amico Alberto, nemmeno il campo aveva potuto rovinare questa amicizia.Lui avrebbe preferito stare di più in ka-be perchè non si doveva lavorare, si mangiava abbastanza bene e non faceva freddo. … Quando le SS ebbero bisogno di chimici ben preparati per lavorare ad una fabbrica di gomma,  Primo Levi  diede un esame di chimica per tentare di salvarsi diventando uno specialista. Mentre aspettava il risultato dell’esame, Levi continuò a lavorare in campo e un giorno riuscì ad ottenere un incarico più leggero: quello di trasportare la zuppa e nel viaggio verso le cucine. insieme ad un giovane detenuto, Jean. Durante il tragitto gli recitò alcuni versi della Divina Commedia, interpretando il loro significato come un richiamo a ricordare la loro umanità, a non soccombere al processo di riduzione alla condizione di animali, addirittura di oggetti che i nazisti volevano imporre loro.
Nell’ ottobre 1944, per esigenze di spazio, avvenne un’altra selezione: i sani al lavoro e i deboli e malati nelle camere a gas; l’ autore riuscì a salvarsi e viene chiamato in Laboratorio avendo superato l’esame di chimica.

Il laboratorio era simile quello vecchio in cui aveva lavorato: pulito, riscaldato, comodo, con tre lunghi banconi e numerosi oggetti utili per gli esperimenti.
Levi era invidiato dai compagni, tranne che da Alberto, perché non doveva svolgere un lavoro difficile e poteva stare al caldo ma  veniva sistematicamante disprezzato da alcune donne civili che lavoravano insieme a lui e sentiva su di sè tutto il peso della discriminazione. Importante è anche il capitolo “L’ultimo”, nel quale viene descritta l’impiccagione di un uomo che aveva appoggiato la ribellione dell’ultimo Sonderkommando (la squadra di detenuti incaricata di svuotare le camere a gas e bruciare i cadaveri) e, prima di morire, gridò loro parole di incoraggiamento che li incitassero a resitere (Compagni, io sono l’ultimo). Primo Levi lo ammira per il suo coraggio e anche una certa vergogna perchè non si sente capace di fare lo stesso. L’ 11 gennaio 1945 lo scrittore si ammalò per scarlattina e fu ricoverato per la seconda volta in ka-be; i russi erano ormai vicini, il campo venne evacuato e il 18 gennaio 1945 i sani partirono per ordine delle SS; moltissimi i moribondi morirono nel giro di poco tempo. Primo Levi e Alberto si separarono a causa del ricovero di Levi; Alberto partì insieme agli altri uomini “sani” e morì, come centinaia di altri, nella terribile marcia. Terrorizzati dalla possibilità di essere catturati dai russi o liciati dai detenuti, le SS fuggirono. Primo Levi rimase chiuso in Ka-Be insieme ad altri e riuscì a sopravvivere procurandosi legna da ardere, cibo e oggetti utili tra le macerie del campo, insieme alle scatolettedi carne che i nazisti avevano lasciato fuggendo Nella loro baracca erano in 11 e proprio mentre Levi e Charles, un suo compagno, trasportavano il primo cadavere del gruppo in una fossa comune, videro arrivare a cavallo quattro russi, i loro liberatori.
Il testo si ferma qui, la storia verrà proseguita nel libro “La tregua”, pubblicato nel 1963.
DESCRIZIONE DI ALCUNI PERSONAGGI:
I personaggi che compaiono nel romanzo sono molto numerosi; tuttavia possono essere raggruppati in due categorie: quella dei sommersi e quella dei salvati, titolo di uno dei capitoli che passò poi all’ultima opera dell’Autore.
La prima comprende la maggioranza degli Häftlinge, ossia i più deboli, quelli per cui vale la legge del lager che “l’unica cosa è obbedire”, figure vuote a cui è stato tolto tutto, sentimenti ed emozioni, “pupazzi sordidi e miserabili, vermi vuoti di anima”. Tra questi, Null Achzehn, uno dei compagni di lavoro di Levi , un giovane privo di astuzia e che, nello svolgere il lavoro assegnatogli, impiega tutte le proprie forze fino a crollare, senza sollevare dal suolo gli occhi tristi e opachi.
I salvati invece sono coloro che lottano non solo per sopravvivere ma anche per mantenere un briciolo di identità, di dignità, attraverso l’astuzia, il furto e il tradimento, che consentivano loro di accedere alle “alte cariche” ed essere rispettati dai Kapos. Singolare è il personaggio di Elias Lindzin, un uomo basso ma molto muscoloso, grande lavoratore, molto forte e capace, che pareva felice e spensierato, ma poi, alla fine del racconto, Levi ne spiega il perché: Elias era un malato mentale, quindi non sapeva e, forse per sua fortuna, non si rendeva conto degli orrori di cui era testimone; il lager è il luogo dove i sani impazziscono e i pazzi, se riescono a lavorare, sopravvivono.
L’autore si sofferma sulla descrizione di Henri, un giovane ventitreenne intelligente, colto e raffinato secondo il quale, per sopravvivere, si dovevano seguire tre regole: organizzazione, furto e capacità di rendersi accetti ai potenti, godendo così di importanti amicizie e di molti protettori, tra i quali c’erano anche molti lavoratori civili della fabbrica che facevano scambi segreti con i prigionieri.
E’ necessario però anche riflettere sul fatto che vero sommerso è colui che si piega moralmente ai voleri dei nazisti, cede mentalmente fino a diventare, in alcuni casi, loro complice, anche se soparvvive, Vero salvato è chi conserva la sua umanità, si mostra solidale, non si lascia convincere di essere una bestia e difende la sua dignità, anche se muore.
E’ il caso di Steinlauf, vecchio soldato che, nel lavatorio, convince Primo Levi a continuare a lavarsi, a non abbandonarsi alla sporcizia e al degrado perchè così si ribadisce la propia umanità, non si cede moralmente alla sopraffazione nazista. Purtroppo non è sopravvissuto.
Alberto, il migliore amico di Primo, era un giovane venticinquenne italiano, intelligente e istintivo che, appena entrato nel lager, aveva dimostrato una grande capacità di adattamento e di gestione dei rapporti con tutti. Alberto e Primo erano inseparabili, infatti venivano chiamati “i due italiani” e, come dice l’autore stesso, rappresentava “la rara figura dell’uomo forte e mite”, costituendo per lui un punto di riferimento.
Alberto ha capito prima di tutti che questa vita è guerra; non si è concesso indulgenze, non ha perso tempo a recriminare e a commiserare sé e gli altri, ma fin dal primo giorno è sceso in campo.

Lorenzo è un italiano che si è recato in Germania a lavorare e aiuta Primo Levi offrendogli frequentemente, con grande rischio personale, una parte della sua razione di cibo.
Per quanto riguarda l’autore come personaggio della storia (autodiegetico),  dal testo si recepiscono queste informazioni:
• coltivava un moderato e astratto senso di ribellione prima di essere prigioniero ma nel Lager non esistono molti modi di opporsi;
• come indole personale non era facile all’odio. Lo giudicava un sentimento animalesco e rozzo, preferiva che invece le sue azioni nascessero dalla ragione per questo il testo esprime grande equilibrio;
• cercava di non perdersi di coraggio: dopo aver imparato il meccanismo del Lager ha lottato accanitamente per sopravvivere;
• in Lager  haimparato a rubare e a non fidarsi troppo della gente e con il tempo giunge anche a pensare per sè ; questo comportamento, anche se non l’ha spinto a entrare nella “zona grigia”,  in opere successive, come “I sommersi e i salvati” viene indicato come causa di rimorso;
come scrittore si è sempre astenuto dal vittimismo e  anche nello scrivere ha sempre un tono pacato e razionale anche se distingue chiaramente i persecutori dalle vittime e simpatizza ovviamente con le seconde;
• ha una vasta cultura ed è abbastanza astuto poiché riesce a superare l’esame di chimica, e viene scelto per lavorare il laboratorio.
Nel testo spesso la narrazione rallenta per lasciar spazio alla descrizione e alle sue riflessioni di natura storica, filosofica, morale e sociologica.
Il lessico è generalmente comune (es. dignità, spegnere, comando, campo) ma compaiono termini raffinati (aguzzare l’ingegno, magnanimità, verosimilmente) ci sono termini specialistici (es. Blocks, Ka-BE) e stranieri (Wer kann Deutsh?, wasser, null achtzehn). L’aggettivazione è molto ricca e talvolta inconsueta: ci sono aggettivi ricercati e specifici.  Primo Levi ha assunto deliberatamente il linguaggio pacato e sobrio del testimone e ha dato alle frasi una struttura sintattica chiara. Era questo il suo intento per cercare di essere più equilibrato possibile in modo che il lettore potesse giudicare in modo il più possibile obiettivo.
CIRCOSTANZE STORICHE E TEMI TRATTATI
Il testo si inserisce nel periodo storico della seconda guerra mondiale nel periodo in cui sorge il sentimento nazista. Il nazionalsocialismo, un movimento politico tedesco nato negli anni Venti in Germania, dopo la sconfitta subita nella Prima guerra mondiale. Più comunemente conosciuto come nazismo, culminò nell’ascesa al potere del dittatore Adolf Hitler, che dominò la Germania dal 1933 al 1945. Sulla bandiera nazista era disegnata una svastica nera. Antico emblema ecumenico e solare, la svastica o croce uncinata divenne per l’Europa un simbolo di violenza e sopraffazione. La loro ideologia era ispirata alle teorie che sostenevano una presunta superiorità biologica e culturale della razza ariana. Si diffuse dunque l’antisemitismo cioè, l’avversione nei confronti degli ebrei che si tradusse in terribili forme di discriminazione e di persecuzione, spesso cruenta e culminata nel corso della seconda guerra mondiale nello sterminio di milioni di persone. Il termine fu coniato intorno al 1879 per designare l’ideologia e l’atteggiamento persecutorio nei confronti degli ebrei.
Nel periodo fra la Prima e la Seconda guerra mondiale aveva continuato a essere in Europa un sentimento diffuso, sebbene non organizzato, esplose invece nella Germania degli anni Trenta sotto il regime nazista guidato appunto da Adolf Hitler. Con il nazismo la discriminazione e la persecuzione degli ebrei divennero un vero e proprio obiettivo politico, scientificamente perseguito. Iniziata già nel 1933 con il boicottaggio dei negozi, la persecuzione contro gli ebrei continuò prima con la promulgazione delle leggi di Norimberga del 1935. Queste erano leggi razziali emanate per ordine di Adolf Hitler e approvate all’unanimità dal Reichstag nel settembre del 1935, durante il settimo congresso del Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori. Costituì allora il culmine della discriminazione, contro gli ebrei, che sarebbero così stati “esclusi dalla partecipazione alla vita politica del popolo tedesco”. Una prima legge, quella sui “cittadini del Reich”, privava gli ebrei della cittadinanza e quindi dei diritti politici (diritto al voto, partecipazione alla vita politica), garantiti solo ai “cittadini del Reich”; una seconda legge, intesa a “tutelare il sangue e l’onore tedesco” vietava matrimoni e rapporti sessuali tra ebrei e tedeschi.
Per la “soluzione finale del problema” degli ebrei vennero creati i campi di concentramento e di sterminio luogo di prigionia creato per deportare civili e militari, generalmente per motivi bellici o politici. Si differenzia dal carcere per tre ragioni: uomini, donne e bambini sono imprigionati senza un regolare processo; il periodo di confinamento è indeterminato; le autorità che gestiscono il campo di concentramento esercitano un potere arbitrario e illimitato. Sebbene ne esistano svariate tipologie, di solito si tratta di agglomerati di baracche o di capannoni, circondati da torrette e delimitati da reti di filo spinato. I campi di concentramento vengono chiamati anche campi di lavoro o centri di rieducazione  (si ricordino anche i gulag e i lao gai) che divennero veri e propri campi di sterminio, per l’eliminazione fisica di gruppi etnici o religiosi (come ebrei e zingari da parte della Germania nazista) o di oppositori politici. Primo Levi ci porta dunque l’esperienza della deportazione, che viene analizzata con lucidità di pensiero: la malvagità di cui l’uomo era stato capace non trovò in lui né un facile assolutore né un superbo inquisitore. Ma l’opinione del lettore non può essere che una sola, il giudizio è unanime i campi di concentramento sono stati la orribile dimostrazione che l’uomo può ridurre i suoi simili in condizioni pietose e disumane, può uccidere e sterminare la propria specie senza pietà e con orrore, nascondendosi dietro le proprie ideologie.
Il libro, mentre evita i particolari più atroci, si sofferma su tutte le offese alla dignità e persino alla personalità più individuale, dalle percosse alle umiliazioni fisiche (violenza e arroganza nel modo d’interpellare, nudità e funzioni fisiche rese pubbliche, esplicita riduzione dell’uomo a bestia). La privazione della dignità fu il crudele progetto dei nazisti, che studiarono nei minimi dettagli come rendere un uomo una bestia, in continuo tormento. Gli incisero un numero e gli rasarono la testa, in modo che nessuno più avesse una propria identità ma che tutti fossero uguali, il nome dato dai genitori e che si erano portati e costruiti nella vita fino a quel momento era stato tolto e perso per sempre.
Il cibo veniva dato in quantità minime e inferiori alle quantità per sopravvivere, per questo i prigionieri hanno l’unico e frustante pensiero di procurarsi del cibo, sono ridotti come animali. In più vengono nutriti solo con zuppe liquide per cui lo stomaco non si riempie, e i reni sono costretti a lavorare troppo, per cui i prigionieri sono anche frustati dal continuo bisogno di urinare. I prigionieri vengono costretti a seguire tutti gli ordini, anche a quelli più insensati, come a marciare a suono di musiche allegre e tenere il ritmo. Tutti gli uomini hanno bisogno di certezze e punti di riferimento, ma a loro viene tolto anche questo, all’interno del campo non c’è nessuna certezza né di vita né di morte, nel gergo del campo per questo non viene mai utilizzata la parola “domani”. E’ anche difficile essere solidali con altri e coltivare l’amicizia, poiché per sopravvivere bisogna rubare, bisogna legare con le persone giuste in modo da trarne vantaggi. (Si considerano le affermazioni di Luciana Nissim Momigliano)
Questo sistema è di violenza gratuita poiché l’odio che provano i nazisti non è stato provocato da nulla. Un altro regolamento crudele è che i tedeschi pretendono che i prigionieri siano puliti, ma li fanno lavorare nel fango e non danno a loro gli strumenti per lavarsi. Levi capisce per esempio che lavarsi tutti i giorni nell’acqua torbida del lavandino è praticamente inutile ai fini della pulizia e della salute; è invece importantissimo come sintomo di residua vitalità, e necessario come strumento di sopravvivenza morale e della dignità. Il Lager è una macchina per ridurre in bestie, e bestie non dovevano diventare; perché anche in quel luogo si può sopravvivere, per raccontare, per portare testimonianza; e che per vivere è importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l’impalcatura, la forma delle civiltà. Essi erano schiavi, privi di ogni diritto, esposti ad ogni offesa, votati a morire, ma una facoltà gli era rimasta, la facoltà di negare ogni consenso e gli ideali e i valori che nessuno può toglierti mai. Mantenere il ricordo vivo di questa strage non è solo un bisogno ma anche un obbligo. In un mondo, quello dei lager nazisti, in cui ogni cosa sembra sfuggire al controllo della ragione, soltanto l’impegno della memoria può contrastare il trionfo dell’assurdo e dell’orrore. È questo il senso della scrittura di Primo Levi, misurata, lucida e essenziale, priva di esagerazioni retoriche, fragile testimonianza di un ideale di civiltà e dignità umana.
Oggi il 27 gennaio viene ricordato lo shoah con iniziazioni nelle città, per non dimenticare e cercare che questo non accada più.
La storia dei campi di distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo. Purtroppo oggi ancora in alcune parti del mondo come in Africa con le guerre tribali in cui vengono sterminate diverse tribù, o nelle zone dei diamanti dove i gruppi di ribelli assaltano tutti gli accampamenti uccidono, mutilano anche donne e bambini e gli uomini che sono in grado di lavorare vengono portati via a raccogliere diamanti come schiavi, in condizioni pessime, legati con catene e uccisi al primo errore senza pietà. Anche in Croazia e Jugoslavia verso il 1991 con la guerra civile erano stati istituiti campi di concentramento. I sopravvissuti dai campi di concentramento sono oggi pochissimi, molti si sono suicidati perché non riuscivano a tornare alla vita normale, erano perseguitati da incubi. Per questo è ancora più importante conservare il ricordo poiché oggi abbiamo pochissime testimonianze in prima persona.

La Tregua (non incluso nel pòrogramma a.s.2015/16)

In questo romanzo Levi narra il lungo viaggio di ritorno in Italia dalla prigionia nel Lager (dal 27 gen. al 19 ott.). Dalla “Buna” viene portato dai Russi “liberatori” ad Auschwitz, non più campo di concentramento ma ritrovo di superstiti nonchè infermeria, per essere curato dalla scarlattina; qui conosce nuove persone, vive nuove esperienze, finché esausto ed annoiato da giornate trascorse a letto, decide di partire per una destinazione ignota con un convoglio russo di dieci persone. Approfondisce il rapporto con uno di questi passeggeri, Mordo Nahum, un greco dai saldi e contestabili principi morali (che lui stesso ad un certo punto definirà “il mio maestro greco”), per il fatto che entrambi sono mediterranei e con la consapevolezza che si è più forti ad essere in due. Raggiungono, dopo varie settimane di viaggio il campo di Katowice e Levi nel campo degli Italiani conosce Leonardo, il medico, e Marja, l’infermiera e dopo poco tempo viene “assunto” da questa grazie all’equivoco della parola “docktor” nella traduzione e al suo nome, Primo, che casualmente corrispondeva quasi al cognome di lei: Prima. Ritrova poi un un uomo che aveva conosciuto in Lager, Cesare, intraprendente e astuto, col quale stringerà una profonda e solida amicizia. Giunge poi l’attesa notizia della fine della guerra: è l’8 maggio e mentre i Russi festeggiano l’avvenimento per l’intera settimana, nei prigionieri risorgono le speranze nel ritorno. Proprio in quei giorni però Primo si ammala di pleurite (malattia polmonare) e viene guarito da Gottlieb, dottore che poi aiuterà Levi e gli altri nel viaggio verso Odessa, la prossima meta, con le “piccole difficoltà burocratiche”. Prima di giungere qui però, il treno viene bloccato a Zmerinka, dove gli Italiani si fermano per qualche giorno, prima di riuscire ad aggregarsi a un convoglio di Italiani funzionari della Legazione italiana di Bucarest. Dopo dieci giorni viene loro consigliato di recarsi, a piedi, al campo di Staryje Doroghi, “vecchie strade”. Nella “casa rossa” chiamata così per il colore dei suoi muri, il cibo non è dei migliori e tutto sommato la vita del campo è monotona, oziosa, più adatta “a una vacanza che alla vita”. Gli unici avvenimenti che scuotono questa monotonia sono l’arrivo di un cinematografo che proietta tre film e la costruzione di un piccolo teatro. Finalmente, anche se con un po’ di dispiacere, il 15 sett. 1945 gli Italiani partono per tornare a casa. Il viaggio però si rivela molto lento. Raggiunta Iasi, in Romania, le famiglie rumene si staccano dal convoglio, mentre gli Italiani continuano il faticoso viaggio attraverso la Romania, l’Ungheria, la Slovacchia, l’Austria, con una piccola deviazione a Monaco, e, finalmente, il Brennero e l’Italia. A Pescatania Cesare e Primo si dividono e Levi raggiunge Torino il 19 ottobre, ritrovando tutto e tutti in buono stato.
Descrizione personaggi:
Primo Levi: (protagonista) fisicamente è debole e si ammala due volte (di scarlattina e pleurite), , è dotato di una grande forza interiore, è intelligente, riesce a comunicare in varie lingue, è speranzioso, solidale, non vendicativo; è antinazista e antifascista, partigiano; si salva grazie alle sue abilità e all’amicizia con Cesare e il greco.
Cesare: fedele compagno del protagonista, vivono molte vicende insieme e sembra che il protagonista tenga molto a questo legame. Ragazzo intraprendente, abile commerciante (anche se differentemente dal greco), cerca con ogni mezzo di portare gli avvenimenti a suo favore. Propone spesso idee utili per guadagnare e per vivere “meglio”
Il greco: compagno di viaggio di Levi, il loro rapporto non è paritario: varia “da padrone-schiavo a titolare-salariato, a maestro-discepolo, a fratello maggiore-fratello minore” e comunque non sembra che il greco abbia grande considerazione del protagonista. Preferisce dargli consigli e modelli di vita piuttosto che chiedere.
Presenti molti personaggi secondari, citati un’ unica volta o più spesso ma senza descriverne la storia. (Charles, suo compagno nel viaggio ad Auschwitz, Hurbinek e Henek: un bambino sopravvissuto in modo misterioso che però morirà dopo pochi giorni e il ragazzo che si prendeva cura di lui, Hanka e Jadza , le due ragazze polacche che svolgevano la funzione di infermiere, Leonardo e Marja, dottore e infermiera a Katowice, Il moro di Verona, uomo poco socievole che vive per la figlia, il Trovati, Cravero
I sommersi e i salvati: sintesi di alcuni capitoli
DESCRIZIONE E STORIA DEL CAMPO DI AUSCHWITZ http://it.wikipedia.org/wiki/Campo_di_concentramento_di_Auschwitz

I SOMMERSI E I SALVATI
commento ai capitoli La zona grigia e la  La vergogna

LA ZONA GRIGIA

“La zona grigia” è il secondo capitolo del libro “I sommersi e i salvati”, scritto da Primo Levi nel 1986 (un anno prima del tragico suicidio).
Il libro ripercorre temi ricorrenti e molto importanti per Levi, ma pone l’accento non tanto sulla vita nel lager, quanto sulle meccaniche che entrano in gioco una volta usciti da quella terribile realtà.
Una di esse viene esaustivamente trattata da parte di Levi nel capitolo secondo.
La “zona grigia”, per Levi, è una sorta di grande “territorio”, a cui inevitabilmente chiunque durante la propria vita approda: è la situazione che si va a creare tra i protagonisti di un evento traumatico.
Secondo Primo Levi, per comprendere meglio il mondo e affrontare più facilmente gli ostacoli della vita, gli uomini operano moltissime semplificazioni, procedura che è indispensabile per farsi un’idea di come funziona il mondo. Una di queste semplificazioni porta gli uomini a dar credito ad una visione manichea del mondo: esistono solo i puramente buoni e i puramente cattivi. Non ci sono, non ci possono e non ci devono essere contatti tra queste due realtà. Un esempio molto significativo che riporta l’autore è il successo esagerato degli sport come il calcio o il baseball: durante una partita esistono solo due squadre o due individui che si fronteggiano; naturalmente, lo spettatore è portato a considerare, secondo sui giudizi personali, una delle due realtà come buona e l’altra come cattiva, anelando alla vittoria della prima e alla sconfitta della seconda.
Tuttavia, molto raramente (praticamente mai) le situazioni della vita sono così semplici e poco articolate: molto spesso queste due realtà entrano in contatto, unendosi così indissolubilmente e profondamente, tanto da rendere molto difficile qualsiasi tentativo di giudizio.
Riportando questa definizione di “zona grigia” alla realtà del lager, Levi ci offre un nuovo modo di vedere i campi di concentramento: esistono alcune vittime che cercano di ingraziarsi i carnefici non solo con espedienti innocui, volti solo a garantire una più agevole sopravvivenza, ma anche rendendosi in varia misura complici dei loro crimini. La linea che separa queste due categorie è spesso molto sottile e fa sì che, fra coloro che sono totalmente innocenti e quelli che sono totalmente colpevoli si crei un’ambigua zona intermedia, appunto “la zona grigia”.  La caratteristica più odiosa dei lager nazisti, così come dei gulag sovietici  (o dei campi di sterminio cambogiani o dei lao gai cinesi , o dei campi coreani...nda), oltre alle terrificanti umiliazioni e alla tortura fisica, era il fatto che chiunque entrasse in un lager non aveva punti di riferimento di alcun genere, era completamente solo di fronte ad una realtà completamente ostile.
Non esistevano due “fazioni”opposte che si fronteggiavano, non esisteva un solo nemico su cui concentrare tutta la propria rabbia e il proprio odio perchè i mostri da cui guardarsi non erano solo i soldati, ma anche quelli che fino a poco tempo fa erano i propri amici, parenti, concittadini, ormai asserviti in misura maggiore o minore ad un sistema disumano nel tentativo di sopravvivere.
Questo brusco cambiamento rispetto alla vita quotidiana era riscontrabile fin dalle prime ore di detenzione nel campo e, molto spesso, bastava per sgretolare ogni traccia di speranza e coraggio nei prigionieri. Questo era l’intenzione dei dirigenti del campo rispetto a chiunque giungesse per la prima volta nel campo: agli occhi dei “vecchi” detenuti, il “nuovo” doveva essere un avversario per definizione, qualunque fosse il motivo per cui era lì e la sua personalità andava attaccata e distrutta il prima possibile e con i metodi più violenti.
Levi è molto chiaro su come questo scopo fosse importante per le SS: non appena giunti al campo, i “nuovi” venivano picchiati violentemente, intontiti con una sequela di ordini urlati con furia (in qualche caso anche simulata)e in una lingua che alcuni non comprendevano, denudati, rasati e vestiti di stracci. Ogni singolo aspetto di questo macabro e insensato rituale andava a contribuire all’annichilimento della personalità del prigioniero.
Oltre all’impegno delle guardie nel raggiungere questo proposito, molto spesso anche i prigionieri già presenti nel campo facevano la loro parte: chi era lì da più tempo degli altri era considerato una figura importante e da tenere in considerazione, figura che molto spesso non apprezzava l’arrivo dei “nuovi”, nei quali vedevano riflessa la loro vita precedente che pareva loro dolorosamente lontana.
Molto interessante, curiosa, patetica e triste è la condizione dei cosiddetti prigionieri “privilegiati”: erano questi una percentuale ristretta all’interno del campo, percentuale che diventa significativa nel conteggio dei sopravvissuti; infatti, essi (in un modo o in un altro), erano quelli che aveva trovato la possibilità di mantenersi più in forze degli altri.
Questi “privilegiati”, il cui privilegio scaturiva molto spesso da contatti (di qualunque tipo)con le alte sfere del campo, erano incaricati di incrementare maggiormente la dose di soprusi e angherie ai danni dei “nuovi”, in modo che l’ordine del campo non venisse nemmeno lontanamente intaccato.
Questi personaggi tristi e complicati costituivano l’ossatura del controllo del campo da parte dei nazisti: essi non ne potevano fare a meno, a causa della mancanza di personale, impegnato a mantenere il controllo nell’Europa sottomessa e sui molteplici fronti di guerra. I nazisti, tuttavia, non potevano pensare che i “privilegiati” obbedissero ai loro ordini e non tradissero mai e in nessun caso: l’avevano fatto con i loro compagni e amici e nulla avrebbe loro impedito di farlo ancora. Per ovviare a questo fatto, i “privilegiati” venivano immediatamente costretti a compiere azioni terribili ai danni degli altri prigionieri, in modo che rimanessero come marchiati e non potessero più tornare sui loro passi.
Nell’insieme dei “privilegiati”, Levi distingue due categorie: una composta da coloro che, pur di ricevere una razione extra di cibo, si davano da fare per svolgere compiti di relativa importanza (oppure assolutamente inventati dal nulla!); l’altra categoria delineata rappresenta coloro che, a differenza di quelli appena citati, disponevano all’interno del campo di un vero e proprio potere.
Erano questi i Kapos (i capi delle squadre di lavoro), i capibaracca, gli scritturali, uomini che avevano incarichi di rilievo all’in(Si considerano le affermazioni di Luciana Nissim Momigliano)
Questo sistema è di violenza gratuita poiché l’odio che provano i nazisti non è stato terno dell’amministrazione del lager.

Essi potevano accedere ad informazioni rilevanti sulla struttura del campo e sui membri delle guardie (magari le più corruttibili): per questo erano tenuti sotto osservazione continua dai dirigenti del campo; comunque, rispetto ai prigionieri, il potere di questi particolari “privilegiati”, non aveva alcun limite: non era raro (fino al 1943)che un Kapos ammazzasse di botte un prigioniero e non accorresse in alcuna sanzione (dal 1943 in avanti, quando la domanda di manodopera divenne più impellente, si introdussero alcune “norme”, come il fatto che le punizioni dei Kapos non dovessero ridurre permanentemente la capacità lavorativa del prigioniero).
Di fatto, quindi, all’interno del campo andava a delinearsi una struttura che in tutto e per tutto riprendeva quella dello stato totalitario: il potere proveniva tutto dall’alto e coloro che erano alla base di questa struttura non aveva alcun controllo su di esso.
Diventa quindi chiaro che questa struttura appariva allettante per chi, di natura, era attratto dal potere: infatti, in molti casi diventava Kapos chi risultava essere sadico, frustrato e chi, incredibilmente, dopo molta sofferenza, andava a riconoscersi nei suoi propri carnefici; secondo primo Levi, anche questo fatto delineava la somiglianza tra lo stato totalitario e la vita nel campo.
Successivamente Levi propone un esempio limite di questa aberrante collaborazione “vittima-carnefice”: i Sonderkommandos presenti nei campi di sterminio.
I Sonderkommandos( letteralmente “squadra speciale”), rappresentavano la squadra di prigionieri del campo incaricata del controllo e della gestione dei crematori e delle camere a gas. Essi, in quanto squadra speciale, erano sovvenzionati con razioni extra di cibo per la durata del servizio(qualche mese). Venivano scelti al momento dell’arrivo alla stazione e solo in un secondo momento realizzavano quale fosse il loro compito (chi rifiutò di obbedire venne ucciso).  Esistevano però ruoli come quelli dei kapos ai quali molti ambivano e si mostravano estremamente crudeli pur di ottenerli.
L’incarico dei membri del Sonderkommando consisteva nel controllare i nuovi arrivati che dovevano essere introdotti nelle camere a gas, estrarre i loro cadaveri dalle camere, estrarre i denti d’oro dalle mascelle, rasare i capelli femminili, dividere e mettere da parte i vestiti, le scarpe, i bagagli, trasportare i corpi ai crematori, sovrintendere al funzionamento dei forni e quindi ripulirli dalle ceneri.
Questo compito orribile era affidato ad un gruppo di uomini che contava dai 700 ai 1000 effettivi, che comunque non durava per più di qualche mese: infatti, allo scadere del mandato, i componenti del Sonderkommandos venivano eliminati (sempre con metodi diversi per non destare sospetti) perché non potessero riportare ciò che avevano visto.

kkkkkk

DESCRIZIONE E STORIA DEL CAMPO DI AUSCHWITZ
http://it.wikipedia.org/wiki/Campo_di_concentramento_di_Auschwitz

I SOMMERSI E I SALVATI
commento ai capitoli La zona grigia e la  La vergogna
LA ZONA GRIGIA

“La zona grigia” è il secondo capitolo del libro “I sommersi e i salvati”, scritto da Primo Levi nel 1986 (un anno prima del tragico suicidio).
Il libro ripercorre temi ricorrenti e molto importanti per Levi, ma pone l’accento non tanto sulla vita nel lager, quanto sulle meccaniche che entrano in gioco una volta usciti da quella terribile realtà.
Una di esse viene esaustivamente trattata da parte di Levi nel capitolo secondo.
La “zona grigia”, per Levi, è una sorta di grande “territorio”, a cui inevitabilmente chiunque durante la propria vita approda: è la situazione che si va a creare tra i protagonisti di un evento traumatico.
Secondo Primo Levi, per comprendere meglio il mondo e affrontare più facilmente gli ostacoli della vita, gli uomini operano moltissime semplificazioni, procedura che è indispensabile per farsi un’idea di come funziona il mondo. Una di queste semplificazioni porta gli uomini a dar credito ad una visione manichea del mondo: esistono solo i puramente buoni e i puramente cattivi. Non ci sono, non ci possono e non ci devono essere contatti tra queste due realtà. Un esempio molto significativo che riporta l’autore è il successo esagerato degli sport come il calcio o il baseball: durante una partita esistono solo due squadre o due individui che si fronteggiano; naturalmente, lo spettatore è portato a considerare, secondo sui giudizi personali, una delle due realtà come buona e l’altra come cattiva, anelando alla vittoria della prima e alla sconfitta della seconda.
Tuttavia, molto raramente (praticamente mai) le situazioni della vita sono così semplici e poco articolate: molto spesso queste due realtà entrano in contatto, unendosi così indissolubilmente e profondamente, tanto da rendere molto difficile qualsiasi tentativo di giudizio.
Riportando questa definizione di “zona grigia” alla realtà del lager, Levi ci offre un nuovo modo di vedere i campi di concentramento: esistono alcune vittime che cercano di ingraziarsi i carnefici non solo con espedienti innocui, volti solo a garantire una più agevole sopravvivenza, ma anche rendendosi in varia misura complici dei loro crimini. La linea che separa queste due categorie è spesso molto sottile e fa sì che, fra coloro che sono totalmente innocenti e quelli che sono totalmente colpevoli si crei un’ambigua zona intermedia, appunto “la zona grigia”.  La caratteristica più odiosa dei lager nazisti, così come dei gulag sovietici  (o dei campi di sterminio cambogiani o dei lao gai cinesi , o dei campi coreani...nda), oltre alle terrificanti umiliazioni e alla tortura fisica, era il fatto che chiunque entrasse in un lager non aveva punti di riferimento di alcun genere, era completamente solo di fronte ad una realtà completamente ostile.
Non esistevano due “fazioni”opposte che si fronteggiavano, non esisteva un solo nemico su cui concentrare tutta la propria rabbia e il proprio odio perchè i mostri da cui guardarsi non erano solo i soldati, ma anche quelli che fino a poco tempo fa erano i propri amici, parenti, concittadini, ormai asserviti in misura maggiore o minore ad un sistema disumano nel tentativo di sopravvivere.
Questo brusco cambiamento rispetto alla vita quotidiana era riscontrabile fin dalle prime ore di detenzione nel campo e, molto spesso, bastava per sgretolare ogni traccia di speranza e coraggio nei prigionieri. Questo era l’intenzione dei dirigenti del campo rispetto a chiunque giungesse per la prima volta nel campo: agli occhi dei “vecchi” detenuti, il “nuovo” doveva essere un avversario per definizione, qualunque fosse il motivo per cui era lì e la sua personalità andava attaccata e distrutta il prima possibile e con i metodi più violenti.
Levi è molto chiaro su come questo scopo fosse importante per le SS: non appena giunti al campo, i “nuovi” venivano picchiati violentemente, intontiti con una sequela di ordini urlati con furia (in qualche caso anche simulata)e in una lingua che alcuni non comprendevano, denudati, rasati e vestiti di stracci. Ogni singolo aspetto di questo macabro e insensato rituale andava a contribuire all’annichilimento della personalità del prigioniero.
Oltre all’impegno delle guardie nel raggiungere questo proposito, molto spesso anche i prigionieri già presenti nel campo facevano la loro parte: chi era lì da più tempo degli altri era considerato una figura importante e da tenere in considerazione, figura che molto spesso non apprezzava l’arrivo dei “nuovi”, nei quali vedevano riflessa la loro vita precedente che pareva loro dolorosamente lontana.
Molto interessante, curiosa, patetica e triste è la condizione dei cosiddetti prigionieri “privilegiati”: erano questi una percentuale ristretta all’interno del campo, percentuale che diventa significativa nel conteggio dei sopravvissuti; infatti, essi (in un modo o in un altro), erano quelli che aveva trovato la possibilità di mantenersi più in forze degli altri.
Questi “privilegiati”, il cui privilegio scaturiva molto spesso da contatti (di qualunque tipo)con le alte sfere del campo, erano incaricati di incrementare maggiormente la dose di soprusi e angherie ai danni dei “nuovi”, in modo che l’ordine del campo non venisse nemmeno lontanamente intaccato.
Questi personaggi tristi e complicati costituivano l’ossatura del controllo del campo da parte dei nazisti: essi non ne potevano fare a meno, a causa della mancanza di personale, impegnato a mantenere il controllo nell’Europa sottomessa e sui molteplici fronti di guerra. I nazisti, tuttavia, non potevano pensare che i “privilegiati” obbedissero ai loro ordini e non tradissero mai e in nessun caso: l’avevano fatto con i loro compagni e amici e nulla avrebbe loro impedito di farlo ancora. Per ovviare a questo fatto, i “privilegiati” venivano immediatamente costretti a compiere azioni terribili ai danni degli altri prigionieri, in modo che rimanessero come marchiati e non potessero più tornare sui loro passi.
Nell’insieme dei “privilegiati”, Levi distingue due categorie: una composta da coloro che, pur di ricevere una razione extra di cibo, si davano da fare per svolgere compiti di relativa importanza (oppure assolutamente inventati dal nulla!); l’altra categoria delineata rappresenta coloro che, a differenza di quelli appena citati, disponevano all’interno del campo di un vero e proprio potere.
Erano questi i Kapos (i capi delle squadre di lavoro), i capibaracca, gli scritturali, uomini che avevano incarichi di rilievo all’in(Si considerano le affermazioni di Luciana Nissim Momigliano)
Questo sistema è di violenza gratuita poiché l’odio che provano i nazisti non è stato terno dell’amministrazione del lager.

Essi potevano accedere ad informazioni rilevanti sulla struttura del campo e sui membri delle guardie (magari le più corruttibili): per questo erano tenuti sotto osservazione continua dai dirigenti del campo; comunque, rispetto ai prigionieri, il potere di questi particolari “privilegiati”, non aveva alcun limite: non era raro (fino al 1943)che un Kapos ammazzasse di botte un prigioniero e non accorresse in alcuna sanzione (dal 1943 in avanti, quando la domanda di manodopera divenne più impellente, si introdussero alcune “norme”, come il fatto che le punizioni dei Kapos non dovessero ridurre permanentemente la capacità lavorativa del prigioniero).
Di fatto, quindi, all’interno del campo andava a delinearsi una struttura che in tutto e per tutto riprendeva quella dello stato totalitario: il potere proveniva tutto dall’alto e coloro che erano alla base di questa struttura non aveva alcun controllo su di esso.
Diventa quindi chiaro che questa struttura appariva allettante per chi, di natura, era attratto dal potere: infatti, in molti casi diventava Kapos chi risultava essere sadico, frustrato e chi, incredibilmente, dopo molta sofferenza, andava a riconoscersi nei suoi propri carnefici; secondo primo Levi, anche questo fatto delineava la somiglianza tra lo stato totalitario e la vita nel campo.
Successivamente Levi propone un esempio limite di questa aberrante collaborazione “vittima-carnefice”: i Sonderkommandos presenti nei campi di sterminio.
I Sonderkommandos( letteralmente “squadra speciale”), rappresentavano la squadra di prigionieri del campo incaricata del controllo e della gestione dei crematori e delle camere a gas. Essi, in quanto squadra speciale, erano sovvenzionati con razioni extra di cibo per la durata del servizio(qualche mese). Venivano scelti al momento dell’arrivo alla stazione e solo in un secondo momento realizzavano quale fosse il loro compito (chi rifiutò di obbedire venne ucciso).  Esistevano però ruoli come quelli dei kapos ai quali molti ambivano e si mostravano estremamente crudeli pur di ottenerli.
L’incarico dei membri del Sonderkommando consisteva nel controllare i nuovi arrivati che dovevano essere introdotti nelle camere a gas, estrarre i loro cadaveri dalle camere, estrarre i denti d’oro dalle mascelle, rasare i capelli femminili, dividere e mettere da parte i vestiti, le scarpe, i bagagli, trasportare i corpi ai crematori, sovrintendere al funzionamento dei forni e quindi ripulirli dalle ceneri.
Questo compito orribile era affidato ad un gruppo di uomini che contava dai 700 ai 1000 effettivi, che comunque non durava per più di qualche mese: infatti, allo scadere del mandato, i componenti del Sonderkommandos venivano eliminati (sempre con metodi diversi per non destare sospetti) perché non potessero riportare ciò che avevano visto.
Il primo compito della squadra successiva, era quello di eliminare i cadaveri della squadra precedente, una sorta di “rito di iniziazione”, ma non era chiaro che quel destino sarebbe toccato anche a loro.
Questo è ritenuto da molti  il miglior capitolo di tutto il libro.
L’idea della “zona grigia”, in cui nessuno è completamente innocente o colpevole, è qualcosa di assolutamente affascinante, che ci porta ad evitare quelle semplificazioni possono farci travisare la realtà dei fatti.
Levi riesce a superare le emozioni che lo colpiscono quando ripensa al campo e ad osservare la sua realtà in modo scientifico e obiettivo: solamente in questo modo, riesce ad indicare con chiarezza le situazioni del campo e, soprattutto, i suoi effetti sui prigionieri.
Con parole semplici ma dure,  descrive come il compito primario dei lager non fosse semplicemente distruggere fisicamente i prigionieri, ma umiliarli, spingerli al limite, alienarli da tutto ciò che è umano, perché se anche fossero sopravvissuti non avrebbero potuto ritornare alle loro vite precedenti.
In questo terrificante rituale, entravano a far parte anche gli stessi prigionieri, devastati dalla sofferenza e dalla rabbia e pronti a tutto pur di compensare in qualche modo il vuoto che sentivano dentro.
In questo modo, il lager acquista una concezione “fantascientifica”: è una sorta di dimensione parallela, in cui i valori normali della quotidianità vengono stravolti e ribaltati, i prigionieri vengono ridotti a bestie e costretti a perdere ogni connotato di umanità, ogni persona è completamente sola e immersa in un mondo che non può completamente comprendere.
Attraverso vari esempi, Levi delinea un filo conduttore per spiegare i comportamenti di collaborazione tra prigionieri e guardie: il potere.
In un sistema come quello del lager, il potere è un attraente miraggio cui molti anelano, ma che solamente alcuni, i più spietati e i più furbi, riescono a raggiungere: nei campi di sterminio, il potere e la sopraffazione risultano essere causa della sofferenza, ma anche unica apparente via d’uscita.
È la logica distorta del lager, la logica distorta del totalitarismo e dell’estremismo…la logica assurda, terribile, patetica e inconcepibile della violenza.

COLLEGAMENTO A LUCIANA NISSIM MOMIGLIANO, dottoressa nell’infermeria del reparto femminile, che dichiarò di aver superato il trauma di Auschwitz per la sua forza di carattere e per la consapevolezza di aver fatto sempre il possibile per aiutare le sue compagne.)

PRIMO LEVI – LA VERGOGNA
Questo sentimento emerge in modo evidente in questa frase tratta dal libro “La tregua”:”

…la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa.”.

Da questa frase si può comprendere il sentimento che Levi, come molte  persone sopravvissute ai lager, ha provato, ossia il senso di impotenza nei confronti delle SS e di rimorso e/o colpevolezza per non aver potuto impedire che tutto ciò accadesse. Tale frase è talmente densa di significato che difficilmente chi non ha vissuto l’esperienza del lager la può capire appieno. Basti pensare, infatti, che questo sentimento, unito al senso di colpa per essere riuscito a sopravvivere mentre altri sono morti, i sopravvissuti se li sono portati dietro tutta la vita, causando spesso episodi di suicidio, fra i quali quello dello stesso Levi.
Lo scrittore-chimico sostiene che questo sentimento è emerso anche nel  momento in cui, dopo la prigionia,  avrebbe avuto ragione di gioire: la riacquistata libertà. Infatti, attraverso lo sguardo dei soldati russi che li stavano liberando, non riuscì a far altro che ripensare alle terribili sofferenze provate che lo avevano cambiato profondamente.
Quindi, anziché provare gioia emerge in lui un profondo senso di odio nei confronti dei tedeschi e in generale di tutti quelli coinvolti in uno degli episodi più terribili che la storia ha conosciuto .

Questo viene detto a pagina 11 del testo “La tregua”: “Così per noi anche l’ora della libertà suonò grave e chiusa, e ci riempì gli animi, ad un tempo, di gioia e di un doloroso senso di pudore, per cui avremmo voluto lavare le nostre coscienze e le nostre memorie della bruttura che vi giaceva: e di pena, perché sentivamo che questo non poteva avvenire, che nulla mai più sarebbe potuto avvenire di così buono e puro da cancellare il nostro passato, e che i segni dell’offesa sarebbero rimasti in noi per sempre, e nei ricordi di chi vi ha assistito, e nei luoghi ove avvenne, e nei racconti che ne avremmo fatti. Poiché, ed è questo il tremendo privilegio della nostra generazione e del mio popolo, nessuno mai ha potuto meglio di noi cogliere la natura insanabile dell’offesa, che dilaga come un contagio. È stolto pensare che la giustizia umana la estingua. Essa è una inesauribile fonte di male: spezza il corpo e l’anima dei sommersi, li spegne e li rende abietti; risale come infamia sugli oppressori, si perpetua come odio nei superstiti, e pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia.”.

In queste sue affermazioni, ma in generale in tutte le sue opere, Levi dà prova di una incredibile obiettività pur avendo vissuto tutto questo sulla sua pelle, dato che niente riuscirà a fargli dimenticare ciò che ha passato e che nessuno potrà ridargli la vita che gli è stata tolta all’entrata del lager.
La vergogna (secondo commento)
Nel terzo capitolo, La vergogna, Levi inizia a parlare della vergogna provata dal “salvato” nel momento in cui ripensa all’esperienza del lager, oppure quando deve rispondere alle domande di chi non ha vissuto direttamente quell’esperienza eppure pretende di giudicarla.
Primo Levi afferma che molti (ed anche egli stesso) hanno provato vergogna, cioè un senso di colpa, durante la prigionia e dopo; questo è un fatto accertato e confermato da molte testimonianze.
Secondo Levi il senso di vergogna o di colpa, che coincideva con la riacquistata libertà, era fortemente composito: conteneva in sé elementi diversi, ed in proporzioni diverse per ogni singolo individuo. Infatti ognuno di loro, sia oggettivamente, sia soggettivamente, aveva vissuto il Lager a proprio modo. Secondo il suo parere, l’ora della liberazione non era stata né lieta né spensierata come tutti saremmo portati a credere, ma era stata l’ora della vergogna.
1) I “salvati” soffrivano perché si erano sentiti colpevoli per non aver fatto niente o non abbastanza contro il sistema in cui erano assorbiti. Secondo Primo Levi sul piano razionale, non ci sarebbe stato molto di cui vergognarsi, ma la vergogna restava ugualmente. A questo proposito ci ricorda di quando, nel 1941, caddero in mano tedesca milioni di prigionieri militari sovietici. Erano giovani, ben nutriti e robusti, avevano una preparazione militare e politica ; odiavano i tedeschi che avevano invaso il loro paese; eppure raramente hanno resistito. La denutrizione, la spogliazione e gli altri disagi fisici, di cui i nazisti erano maestri, sono rapidamente distruttivi, e prima di distruggere paralizzano.
2) Nei campi di concentramento tutti avevano vissuto per mesi o anni ad un livello animalesco: avevano sopportato la sporcizia, la nudità, la promiscuità; le loro giornate erano state ingombrate dalla fame, dalla fatica, dal freddo…Inoltre tutti avevano rubato: alle cucine, alla fabbrica, al campo…Tutti avevano dimenticato il proprio paese, la propria cultura, la famiglia, il passato, il futuro che si erano rappresentati, perché, erano ristretti al momento del presente.
Primo Levi crede che molti casi di suicidio dopo la liberazione siano dovuti a questo volgersi indietro a guardare l’”acqua perigliosa”. I casi di suicidio all’interno del lager erano davvero rari e Levi tenta di dare tre diverse spiegazioni:
1- il suicidio è dell’uomo e non dell’animale, è un atto meditato
2- “c’era altro da pensare” in quanto la giornata era fitta: bisognava soddisfare la fame, evitare i colpi e mancava il tempo per concentrarsi sull’idea della morte
3- Nella maggior parte dei casi il suicidio nasce da un senso di colpa che nessuna punizione è venuta ad attenuare; la durezza della prigionia veniva percepita come una punizione ed il senso di colpa veniva messo in secondo piano.
3) Primo Levi racconta che nel momento in cui si sentivano ridiventare uomini, ritornavano le pene degli uomini: la pena della famiglia dispersa o perduta, la pena della vita da ricominciare sotto le macerie,spesso da soli…uscire dalla pena è stato un diletto solo per pochi fortunati, o solo per pochi istanti perché ha coinciso quasi sempre con una fase d’angoscia.
Nonostante ciò, molte liberazioni sono state vissute con gioia piena soprattutto da parte dei combattenti, militari o politici che vedevano realizzarsi le aspirazioni della loro militanza e della loro vita.
Levi, infatti, racconta che nel maggio del 1944 arrivò un nuovo kapo per la sua squadra. Questi picchiava in modo convulso, maligno e perverso sul naso, sugli stinchi e sui genitali. Un collega, un ebreo comunista croato, aveva detto a Levi che questo Kapo non sarebbe durato molto. Infatti dopo una settimana il picchiatore sparì. Solo anni dopo, in un convegno di reduci, Levi venne a conoscenza del fatto che alcuni prigionieri politici addetti all’ufficio del lavoro del campo, avevano il potere di sostituire i numeri di matricola sugli elenchi dei prigionieri destinati alla camera a gas.)
4) Altra causa più realistica della “vergogna” della vittime era il rendersi conto di aver mancato sotto l’aspetto della solidarietà umana. Pochi superstiti si sentono colpevoli di aver rubato: chi lo ha fatto ne rimuove il ricordo, ma quasi tutti si sentono colpevoli di omissione di soccorso. La richiesta di solidarietà, di una parola umana, di un consiglio,era permanente, ma veniva soddisfatta di rado.
“Mancava il tempo, lo spazio, la pazienza, la forza”, afferma Levi.
Primo Levi si ricorda di quando aveva cercato di ridare coraggio, facendogli dono di un’attenzione momentanea ad un diciottenne italiano appena arrivato, che era disperato a causa dei primi giorni di campo. Ma si ricorda anche di quando scosse le spalle davanti ad altre richieste; questo perché
la regola principale del Lager era quella di badare prima di tutto a se stessi.
5) Levi ricorda, che nell’agosto del 1944, faceva molto caldo. La sua squadra era stata mandata in una cantina a sgomberare i calcinacci, e tutti soffrivano per la sete. A Levi era stato affidato un angolo della cantina, attiguo ad un locale occupato da impianti chimici in corso di installazione ma già danneggiati dalle bombe. Lungo il muro c’era un tubo che terminava con un rubinetto poco sopra il pavimento. Levi lo aprì a si accorse che usciva dell’acqua a gocce. Scelse di dividere l’acqua con il suo compagno Alberto, amico fin dall’infanzia. Di nascosto in due bevettero, alternandosi sotto il rubinetto.
Ma nella marcia di ritorno al campo Levi si trovò accanto a Daniele, tutto grigio di polvere di calcinacci con le labbra spaccate e gli occhi lucidi e si sentì colpevole.
Daniele li aveva visti e glielo disse alcuni mesi dopo la liberazione avvenuta. Chiese perchè non avesse potuto bere anche lui. Era il codice morale “civile” che riemergeva.
Inoltre il fatto di essere sopravvissuti fa sempre pensare che forse “sei vivo al posto di un altro”, sicuramente migliore di te.
6) Levi racconta di quando, al ritorno dalla prigionia, andò a trovarlo un amico più anziano di lui il quale era contento di ritrovarlo vivo e indenne dicendo che il fatto che Levi fosse sopravvissuto non fu opera del caso ma bensì opera della provvidenza. Levi iniziò così ad interrogarsi sul perché proprio lui, non credente, si fosse salvato. Un suo amico religioso gli disse che era sopravvissuto affinchè portasse testimonianza di quanto era accaduto, ma lui rifiutò completamente questa spiegazione, perchè acuiva il suo senso di colpa.
Primo Levi si domanda perché sia morto Chajim, orologiaio di Cracovia, ebreo pio, che si era sforzato di capirlo e di farsi capire e di spiegare le regole essenziali di sopravvivenza nei primi giorni di cattività; è morto Robert, professore alla Sorbona, che emanava fiducia e coraggio intorno a sé e registrava tutto nella sua memoria…Queste persone sono morte non malgrado il loro valore, ma per il loro valore.
7) Infine i sopravvissuti sentivano la “vergogna del mondo” , cioè il dolore per le colpe che altri hanno commesso: soffrivano perché si rendevano conto che il genere umano, di cui fanno parte, era capace di costruire una mole infinita di dolore.
Gli stereotip (non incluso nel pòrogramma a.s.2015/16)
Nel settimo capitolo, Stereotipi, Levi risponde a tre delle domande più frequenti verso i reduci.
Lo stereotipo è qui inteso come il non potere capire, da parte delle generazioni contemporanee, ciò che fu veramente l’Olocausto e cosa comportò effettivamente lo sterminio per i deportati.
La concezione che ormai si ha del prigioniero è dell’uomo normale, uguale agli altri, solo che è rinchiuso in una cella e non ha libertà.
In realtà, in quella situazione, il problema era un altro e la mancanza di libertà era comunque secondaria; infatti venivano a mancare la soddisfazione dei bisogni primari dell’uomo come il cibo e l’acqua.
Primo Levi dice che coloro che hanno sperimentato la prigionia si dividono in due categorie ben distinte: quelli che tacciono e quelli che raccontano. Tacciono coloro che provano quel disagio (coloro che ha chiamato “vergogna”), coloro che non si sentono in pace con se stessi, o le cui ferite bruciano ancora. Parlano quelli che obbediscono a spinte diverse; parlano perché ravvisano nella loro prigionia il centro della loro vita, l’evento che ha segnato la loro esistenza. Parlano perché sanno di essere testimoni di un processo secolare, parlano perché “è bello raccontare i guai passati”, parlano descrivendo paura e coraggio, astuzie, offese, sconfitte…ma parlano anche perché vengono invitati a farlo. Gli ascoltatori, gli amici, i figli, i lettori, capiscono l’unicità della loro esperienza e li sollecitano a raccontare, ponendo domande e talvolta mettendoli in imbarazzo.
Primo Levi dice che fra le domande che gli vengono poste ce n’è una “famiglia” che non manca mai: “Perché non siete fuggiti?”, “Perché non vi siete ribellati?”, “Perché non vi siete sottratti alla cattura ‘prima’?”. Secondo Levi queste domande, per la loro immancabilità e crescere nel tempo, meritano attenzione.
“Perché non siete fuggiti?”
Vi sono paesi in cui la libertà non è mai stata conosciuta perché il bisogno che l’uomo ne prova viene dopo altri bisogni: resistere al freddo, alla fame, alle malattie..
Vi sono poi altri paesi in cui i bisogni elementari sono soddisfatti e i giovani di oggi sentono la libertà come un bene a cui non si deve rinunciare; perciò l’idea della prigionia è concatenata all’idea della fuga o della rivolta. La condizione del prigioniero è sentita come anormale e deve essere guarita con l’evasione o la ribellione. L’idea della prigionia e dell’evasione di oggi assomiglia assai poco alla situazione dei campi di concentramento. In Germania esistevano milioni di stranieri in condizione di schiavitù, affaticati, disprezzati, mal vestiti e mal curati. I prigionieri di guerra ricevevano viveri e vestiario attraverso la Croce Rossa e possedevano un buon allenamento militare, erano esenti dalla “zona grigia” e potevano fidarsi l’uno dell’altro.
Per i paria dell’universo nazista l’evasione era difficile e pericolosa:erano demoralizzati, indeboliti dalla fame e dai maltrattamenti, avevano i capelli rasati, abiti lerci e scarpe di legno.
Se gli ebrei fossero riusciti a superare lo sbarramento di filo spinato e la griglia elettrificata, a sfuggire dalle pattuglie, alla sorveglianza delle sentinelle armate di mitragliatrice nelle torrette di guardia, ai cani addestrati alla caccia all’uomo:verso dove avrebbero potuto dirigersi?a chi avrebbero chiesto ospitalità?erano fuori dal mondo, non avevano più una patria né una casa. Chi ospitava o aiutava un ebreo rischiava punizioni terrificanti. Inoltre la fuga di un solo prigioniero era considerata un evento intollerabile. Di conseguenza, quando un ebreo mancava all’appello l’intero campo veniva messo in stato d’allarme; i connazionali o gli amici notori erano interrogati sotto tortura e poi uccisi. I suoi compagni di baracca venivano fatti stare in piedi , nella piazza dell’appello, sotto la neve, la pioggia o il sole, finchè l’evaso non fosse stato ritrovato, vivo o morto.
Primo Levi racconta poi l’evasione di Mala dal Lager femminile di Birkenau. Mala era un’ebrea polacca che era stata catturata in Belgio e parlava molte lingue, perciò fungeva da interprete e da portaordini, godendo di una certa libertà di spostamento. Nell’estate del 1944 decise di evadere con Edek, un prigioniero politico polacco. Corruppero una SS e si procurarono due uniformi. Giunsero al confine slovacco, vennero fermati da due doganieri e consegnati alla polizia e furono riportati a Birkenau. Edek venne impiccato subito. Mala era riuscita a nascondersi una lametta da rasoio addosso; mentre era nella cella si recise l’arteria di un polso ai piedi della forca. L’SS cercò di strapparle la lama ma Mala gli sbattè sul viso la mano insanguinata. Accorsero subito altri militi che la calpestarono a morte e poi fu portata al crematorio.
Levi si ricorda di quando era stato invitato a parlare in una quinta elementare per commentare i suoi libri. Un ragazzino gli chiese di tracciare uno schizzo alla lavagna del campo di concentramento; dopo aver studiato il disegno gli espose il piano che aveva escogitato: di notte, bisognava per prima cosa sgozzare la sentinella; poi, indossare i suoi abiti, subito dopo correre alla centrale e interrompere la corrente elettrica così si sarebbero spenti i fari e si sarebbe disattivato il reticolato ad alta tensione. Questo illustra la spaccatura che esiste fra le cose com’erano “laggiù” e le cose come vengono rappresentate dalla immaginazione corrente, alimentata da libri, film e miti.
Essa slitta verso la semplificazione e lo stereotipo. Si ha infatti molta difficoltà a percepire le vicende altrui in quanto sono lontane dalle nostre nel tempo, nello spazio e nella qualità. Noi tendiamo ad assimilarle a quelle “vici-niori”.
“Perché non vi siete ribellati?”
Questa domanda è quantitativamente diversa dalla precedente ma anch’essa si fonda su uno stereotipo. In primo luogo non è vero che in nessun lager non abbiano avuto luogo delle rivolte; furono imprese di estrema audacia ma nessuna di esse si concluse con la vittoria(intesa come liberazione del campo). Sarebbe stato insensato puntare alla liberazione perché perché le truppe di guardia erano armate e gli insorti no. Lo scopo effettivo era quello di danneggiare o distruggere gli impianti di morte e consentire la fuga del piccolo nucleo di insorti, il che talvolta riuscì. Ad una fuga di massa non si pensò mai: sarebbe stata un’impresa folle.
I pochi a cui l’impresa riuscì, parlarono ma non furono quasi mai ascoltati né creduti.
In secondo luogo: in nesso oppressione-ribellione è uno stereotipo; non è valido sempre.
La storia delle ribellioni è vecchia ed altrettanto tragica e varia. Poche ribellioni sono state vittoriose, molte sono state sconfitte. In ogni caso si osserva che alla testa del movimento non figurano mai gli individui più oppressi: di solito le ribellioni sono guidate da capi audaci e spregiudicati. Il fatto non può stupire: un capo deve possedere forza morale e fisica, e l’oppressione deteriora l’una e l’altra. Per suscitare la collera l’oppressione dev’essere di misura modesta, o condotta con scarsa efficienza. L’oppressione nei lager era di misura estrema. Il prigioniero tipico era al limite dell’esaurimento. La rivolta di Birkenau fu scatenata dal Kommando Speciale addetto ai crematori: erano uomini disperati ed esasperati, ma ben nutriti, vestiti e calzati.
“Perché non vi siete sottratti alla cattura ‘prima’?”
Primo Levi ci ricorda che molte persone minacciate dal nazismo e dal fascismo se ne andarono “prima”; erano esuli politici o intellettuali mal visti dai due regimi. Tuttavia in massima parte le famiglie minacciate restarono in Italia ed in Germania. Domandarsi e domandare il perché è ancora una volta il segno di una concezione stereotipa della storia. L’Europa del 1930-1940 non era l’Europa odierna; emigrare era doloroso, era difficile e costoso. Per farlo occorreva molto denaro e una “testa di ponte” nel paese di destinazione: parenti od amici disposti a dare garanzie o anche ospitalità. L’Europa degli anni ’30 era già industrializzata, era profondamente contadina, o stanzialmente urbanizzata. L’”estero” era uno scenario lontano e vago, soprattutto per la classe media, meno assillata dal bisogno. Di fronte alla minaccia hitleriana la maggior parte degli ebrei indigeni preferì rimanere in quella che essi sentivano come la loro “patria”. Fu comune a tutti la difficoltà organizzativa dell’emigrazione. Erano tempi di gravi Tensioni internazionali: le frontiere europee erano praticamente chiuse e così molti pensavano: se morrò, morrò in “patria”, sarà il mio modo di morire per la patria. Gli ebrei tedeschi erano incapaci di concepire un terrorismo di stato, anche quando già lo avevano intorno a loro.
Bisogna guardarsi dal senno del poi e dagli stereotipi; bisogna guardarsi dall’errore che consiste nel giudicare epoche e luoghi lontani col metro che prevale nel qui e nell’oggi: errore tanto più difficile da evitare quanto più è grande la distanza nello spazio e nel tempo. A quel tempo molte minacce , che oggi ci sembrano evidenti, erano velate dall’incredulità voluta, dalla rimozione, dalle verità consolatorie generosamente scambiate d auto catalitiche.
COMUNICARE (non incluso nel pòrogramma a.s.2015/16)
Levi racconta della difficoltà di comunicare sia con i propri compagni sia con i carcerieri: infatti, egli afferma che per sopravvivere era essenziale conoscere il tedesco, altrimenti si veniva percossi ed emarginati. Coloro che faticavano di più ad integrarsi erano quindi italiani, jugoslavi e greci. Inoltre, in quella situazione,la mente si degrada a causa dell’indebolimento fisico; e, anche se i prigionieri hanno la possibilità di comunicare tra loro, tendono a non farlo, anche per mancanza di argomenti, ma, più sovente, essi non avevano semplicemente voglia di comunicare e guardavano con disprezzo coloro che avevano ancora energie per farlo.
Nonostante Levi conoscesse bene il tedesco, all’inizio faticò a comprendere quello parlato dalle guardie, poiché il loro linguaggio era diverso da quello tradizionale, storpiato e abbruttito.
L’INTELLETTUALE AD AUSCHWITZ (non incluso nel pòrogramma a.s.2015/16)
Levi spiega che è stato fortunato a sopravvivere, in quanto egli è stato reclutato come chimico e questo gli ha dato una condizione più agiata, nonostante egli non fosse né forte né resistente. Egli inoltre presenta una grande curiosità per ciò che lo circonda e questo è stato utile in seguito per la stesura dei suoi libri.
Nonostante il suo caso isolato, la maggior parte degli intellettuali facevano una vita breve, faticando ad inserirsi, soprattutto nel lavoro manuale, a cui erano poco abituati; ed anche nelle baracche la vita era difficile in quanto era una continua opprimente routine. Nonostante tutto, Levi spiega che il lager è stato una sorta di università dove si impara a sopravvivere e a giudicare il mondo da un’ottica diversa da quella abituale. Nel lager tutte le nozioni inutili, come la filosofia, che serviva solo per porsi domande, ma in quella circostanza era anche peggio. L’uomo semplice era incline a non cercare di capire e questo lo proteggeva dai tormenti. Gli unici insegnamenti erano quelli pratici, utili ai nazisti.
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Rapidi appunti su Primo Levi e la scienza

Covare il cobra
http://www.divagatoriscientifici.it/covare-il-cobra/
Schedatura del video
Primo Levi: la memoria, il lavoro, la scienza ed. Palumbo

I critici hanno individuato alcuni temi come la scienza e il lavoro.
Il suo è un interesse non comune tra i letterati italiani per il lavoro colto più che come un fatto sociale come una tecnica, un mestiere che dà soddisfazione se fatto bene. Questo tema ricorre ne “La chiave a stella” che va oltre il Neorealismo. C’è la rappresentazione di un tecnico, Tino Faussone e la riproduzione efficace del suo linguaggio, un italiano semicolto cioè fortemente infiltrato di dialetto, in questo caso il piemontese. Nessuno scrittore neorealista era riuscito a rendere l’idea che la rappresentazione della realtà del popolo è soprattutto una questione di linguaggio (Ignazio Silone, nella prefazione a “Fontamara” spiega che l’italiano non è compreso dai “cafoni” e che lui vuole in qualche modo riprodurre il loro linguaggio, ma la riuscita è inferiore a quella di Primo Levi; negli anni ’50 una rqappresentazione “linguistica” del popolo si ha in PP Pasolini, “Ragazzi di vita” e “Una vita violenta” con inserti di dialetto romanesco e gergo dei ragazzi “borderline”.

IL LAVORO
Legato al motivo dell’identità specifica dell’uomo (Se questo è un uomo; si veda per confronto UOMINI E NO di Vittorini, il vero uomo è quello che resiste all’offesa) è quello del lavoro che si divide in due modalità: il lavoro vilipeso, annientato, deriso come accade nel lager e il lavoro dignitoso e gratificante. L’operatività che fa dell’uomo un uomo è degradata nel lager; nerl mondo civile e democratico esiste invece il lavoro valorizzato e rispettato, un lavoro prodotto dalla mano; l’uso della mani guidate dall’intelligenza per lavorare è ciò che rende l’uomo superiore agli animali. Serve ad intervenire su quel blocco informe che è la materia amorfa per darle senso e funzionalità a vantaggio dell’uomo.

INTERPRETAZIONE DI “ARBEIT MACHT FREI”
In un articolo del 1959 (Arbeit Macht Frei) e ne “I Sommersi e i salvati” interpreta quella scritta come macabro sarcasmo, vilipendio del lavoro dell’uomo; per lui questo vilipendio era necessario ai miti nazisti e fascisti (ma anche quelli tipici di ogni pensiero totalitario) che ritenevano alcune “razze” oppure alcune categorie sociali (i dissidenti, i non allineati, rinchiusi come criminali) degne solo di lavoro schiavistico e degradato.
LA CHIAVE A STELLA
Pubblicato nel 1978, è un dialogo tra il chimico (alter ego di Primo Levi) e Tino Faussone, operaio specializzato in possesso di saperi operativi che viaggia per tutto il mondo a montare gru, tralicci, trivelle, pozzi petroliferi e aggiustarli se sono rotti. La lingua è rilevante costruisce una lingua dell’oralità, un italiano piemontese pieno di termini tecnici che nasce dal lavoro dell’operaio Faussone. L’antropologo Levi Strass definì PL un grande etnografo; il romanzo può essere letto come opera di antropologia del lavoro definito come libertà operativa che permette di realizzare le tue capacità. Il termine libertà ha molti sensi, ma il tipo di libertà più utile al consorzio umano consiste nell’essere competenti del proprio lavoro e quindi provare piacere a svolgerlo. L’impegno di chi sana gli attrezzi lavorativi e di chi indaga i segreti della materia (il chimico-scrittore in dialogo con Faussone) si completano e hanno come obiettivo il lavoro ben fatto e la responsabilità della messa in opera. E’ importante anche la sfida alla natura ostile (malizia = sfida che la materia ostile oppone a chi lavora): il romanzo si conclude con una citazione di Conrad (Il tifone, 1903) in cui l’uomo si misura col mare; da questa sfida deriva il carattere di epicità della scrittura di Levi evidente anche nel testo “La tregua”, storia di un epico viaggio di ritorno a casa (Ulisse – Il canto di Ulisse). La natura è viva, talvolta ostile e pericolosa ma viva, il suo mestiere è quello di capirla e ricavarne vantaggio ma senza abusarne ; al suo mestiere Levi  deve la vita perché entrò in un laboratorio di chimica dove lavorò al coperto. Definisce la natura “un serbatoio di metafore” ; più lontano è l’altro campo, più la metafora è tesa; il chimico affronta la natura come il marinaio di Conrad affronta il mare. (Diversità rispetto alle posizioni di Lucrezio e Seneca, contrari al progresso tecnologico e a Pirandello o Montale ma lontano dalle posizioni estremistiche del Futurismo. Si ricordi anche la figura del greco Mordo Naum con la sua singolare teoria sulla dignità del lavoro nel capitolo “Il greco” in “La tregua”)

PRIMO LEVI E CALVINO (non incluso nel pòrogramma a.s.2015/16)
SIMILE A Levi per molti aspetti è Calvino che condivide con lui la razionalità e la passione per la scienza. Il lavoro è presente nei racconti di Marcovaldo, manovale innamorato non corrisposto della natura e in “La giornata di uno scrutatore”; guardando i malati quasi come se fossero reclusi in una prigione, si chiede cosa distingua queste persone dalla materia indifferenziata e la risposta è il lavoro, quando descrive lo sforzo di alcune ricoverate che tutte insieme spingono una carretta e portano fascine e zuppa e in questa solidarietà anche se le persone sono colpite da una genetica ostile c’è la dignità dell’essere umano. Ci sono molte differenze di visione del mondo e di stile: in Calvino domina il problema della leggerezza che smaterializza il reale e vuole renderlo matematico, combinatorio, particolarmente nelle ultime opere. Calvino, nelle “Lezioni americane” pone come grande valore la leggerezza; in PL la vita materiale è “pesante” e si risolve nella necessità di piegare la materia bruta, pesante, amorfa. (si veda l’atomismo di Lucrezio)

LA SCIENZA
La vera educazione di PL è di laboratorio, aveva letto testi di divulgazione fin da molto giovane e per molti anni ha lavorato come chimico in un’industria di vernici e la letteratura è stata un’occupazione secondaria. E’ uno scrittore-scienziato capace di tenere in dialogo le due cultura, solitamente divise da un solco profondo; dalla scienza ricava molte metafore e immagini. Ricordiamo ad esempio “Il sistema periodico”, che fa riferimento alle tavole del chimico russo Mendelev. Molti racconti sono di carattere fantascientifico, altri sono ricordi della sua vita in particolare delle prime esperienze di chimico; gli strumenti o gli elementi naturali come gli atomi vengono umanizzati, come se avessero una loro volontà. Molte poesie della raccolta “Ad ora incerta” danno la parola a scienziati come Galileo. Negli anni 70 sente che la ragione scientifica può generare mostri se usata con scarsa saggezza anche a ridosso del disastro di Cernobyl (si veda il canto XIX del Paradiso sui limiti della ragione umana): la minaccia non è solo quella nucleare ma anche all’ecologia. Egli si rendeva conto del fatto che qualcosa sta fuggendo al controllo dell’uomo come un’imbarcazione che si avvicini ad una cascata senza potersi fermare: mentre la maggior parte dell’umanità è ancora tagliata fuori dai progressi della tecnologia, una parte ristretta sta già pagando il prezzo del suo cattivo uso.
Egli riteneva che la soluzione sarebbe ancora venuta dalla tecnologia, su questo ovviamente ci sono pareri discordanti ma attualmente il problema sembra più di carattere politico che teconologico.
La scienza è un perenne stato di veglia razionale che non deve cedere all’irrazionalità (lezione dell’Illuminismo e Positivismo) ma può essere asservita al potere, capace di generare strumenti di morte o avvelenamento planetario. Essa è un grande serbatoio di metafore e figure ad alto tenore concettuale (Nel principio) La voce del poeta raffigura l’esplosione primordiale che generò gli atomi dei nostri corpi e raffigura la bellezza del ciclo di creazione-distruzione; recupera la bellezza dell’atomismo antico, ad esempio di Epicureo e Lucrezio.
Nel 1984 un articolo “Per non covare il cobra” rivela l’altro lato della scienza, quando non si pone più sfide conoscitive ma è asservita ad un potere economico e politico che hanno come fine il profitto o la supremazia tramite la guerra.
La scrittura di Levi è popolata di animali, qui il cobra è il cattivo frutto dell’uovo del sapere. Primo Levi auspica che gli scienziati vengano educati fin dall’università e assoggettati ad un giuramento: non fare ricerca ai fini dell’annientamento e della distruzione cioè al servizio della guerra. Negarsi all’asservimento; questo è importante. Egli sostanzialmente dice questo: ciò che farai quando eserciterai la professione può essere utile, neutro o nocivo.

Propone di introdurre un corso che vincoli con un giuramento i futuri scienziati a rifiutare di impegnarsi in attività che saranno certamente dannose; non è facile distinguere ma se si può lo si deve fare; studiare cose devastanti per l’umanità non è espressione della libertà della scienza.

«Mi piacerebbe (e non mi pare impossibile né assurdo) che in tutte le facoltà scientifiche si insistesse a oltranza su un punto: ciò che farai quando eserciterai la professione può essere utile per il genere umano, o neutro, o nocivo. Non innamorarti di problemi sospetti. Nei limiti che ti saranno concessi, cerca di conoscere il fine a cui il tuo lavoro è diretto. Lo sappiamo, il mondo non è fatto solo di bianco e di nero e la tua decisione può essere probabilistica e difficile: ma accetterai di studiare un nuovo medicamento, rifiuterai di formulare un gas nervino. Che tu sia o non sia un credente, che tu sia o no un “patriota”, se ti è concessa una scelta non lasciarti sedurre dall’interesse materiale e intellettuale, ma scegli entro il campo che può rendere meno doloroso e meno pericoloso l’itinerario dei tuoi compagni e dei tuoi posteri. Non nasconderti dietro l’ipocrisia della scienza neutrale: sei abbastanza dotto da saper valutare se dall’uovo che stai covando sguscerà una colomba o un cobra o una chimera o magari nulla.»
Primo LEVI, Covare il cobra, 11 settembre 1986, in Opere II, Einaudi, Torino 1997

In PL è presente la critica all’antropocentrismo e la figura dello straniamento, cioè la capacità di descrivere una cosa da un punto di vista diverso: l’uomo è visto dal punto di vista degli astri e di animali piccolissimi, punti di vista opposti e diversi da quelli dell’uomo stesso. In Levi è presente l’ossessione della chiarezza e della razionalità; si pensi alla massima kantiana “Abbi il coraggio di conoscere”.