I Sonetti – I Sepolcri

Vedi l’ ipertesto  Il paesaggio dell’anima che si trova nel nostro sito per  i  testi e il commento ai sonetti “In morte del fratello  Giovanni” e  “Alla sera”.

Per gli strumenti di analisi del testo si vedano questi due collegamenti: uno verso l’ipertesto citato sopra e l’altro verso un sito di strumenti poetici.

 

A Zacinto

Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell’onde
del greco mar da cui vergine nacque

Venere, e fea quelle isole feconde
col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l’inclito verso di colui che l’acque

cantò fatali, ed il diverso esiglio
per cui bello di fama e di sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.

Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.

Testo del Carme “Dei  Sepolcri”

http://www.letteraturaitaliana.net/pdf/Volume_8/t344.

 

Parafrasi del Carme

http://www.antoninofedele.it/sepolcri.html

Tabella con testi letti e parafrasi a cura del prof. Antonino Fedele che si ringrazia per la sua indispensabile opera.

 

 

 

 

 

Il sonno della morte è forse meno duro all’ombra dei cipressi e dentro le urne confortate dal pianto dei superstiti? Quando il Sole per me non feconderà più la terra e questa non offrirà più la bella moltitudine di piante e di animali [che ci circonda], e quando le ore future, cariche di illusorie speranze, non danzeranno più dinanzi a me, né al mio cuore parlerà più lo spirito delle vergini Muse e dell’amore, unico principio immateriale considerato immortale per la mia vita errabonda,

 

 

quale sollievo il tempo passato potrà ricevere da una lapide che distingua le mie dalle innumerevoli ossa che la morte dissemina sulla terra e nel mare? E’ proprio vero, Pindemonte! Anche la speranza, ultima dea, evita le sepolture; un oblio totale travolge ogni cosa; una forza in costante attività, con il suo continuo movimento le trasforma; e il tempo cambia l’uomo, le sue tombe, le sue ultime tracce e ciò che è rimasto della terra e del cielo.

 

Ma perché l’uomo, prima del tempo, dovrebbe negare a se stesso l’illusione, che una volta morto, lo trattiene sulla soglia dell’aldilà?
Quando le sue orecchie non potranno gustare più le piacevolezze di cui potevano godere in vita, egli, forse, non vive anche sottoterra, se nella mente e nei cuori dei suoi cari, con le sue delicate premure, può suscitarla l’attrattiva della vita? Questa reciprocità di sentimenti affettuosi è davvero celestiale, e celestiale è questo particolare privilegio di cui gli uomini sono dotati: spesso, grazie a tale reciprocità, noi si vive con l’amico estinto e l’amico vive con noi se la terra, che maternamente lo accolse bambino e lo nutrì offrendogli il proprio grembo come luogo di accoglienza d’importanza fondamentale, rende sacri i suoi resti preservandoli dai guasti del tempo e dall’empietà di gente sacrilega, una lapide ne riporti il nome e un’amorevole pianta ricolma di fiori odorosi ne consoli le ceneri con la tenerezza della sua ombra.
Soltanto chi non lascia eredità di affetti ha poca gioia dell’urna;

 

 

 

 

 

 

 

 

Estensione all’Italia dell’editto di Saint Cloud  e condanna della sepoltura di Parini, collocato (a seguito di un provvedimento di legge)  nel 1799 in un cimitero fuori mano senza nemmeno il nome sulla tomba. Parini ha fustigato con le sue opere l’inettitudine della nobiltà lombarda

(lombardo Sardanapalo)

 

 

 

 

 

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Forse vaghi continuamente tra le umili sepolture in cerca del luogo dove riposa il capo sacro del tuo Parini? La sua città (Milano), dissoluta allettatrice di evirati poetastri, tra le sue mura, non [gli] dedicò alcuna tomba sotto piante ombrose, né alcuna lapide, né alcuna epigrafe; forse le sue ossa ora sono contaminate dal sangue di un ladro al quale, sul patibolo dove scontò i propri delitti, venne mozzata la testa. Senti l’ululato della cagna randagia che affamata gratta sulle fosse, tra gli sterpi e le macerie; vedi l’upupa immonda, uscita dal teschio, dove si suole riparare dai riflessi della luna, svolazzare tra le croci sparse per la triste campagna e, con il suo triste lamento, incolpare i raggi delle stelle che pietosamente splendono sulle sepolture dimenticate..

 

 

Da quando la famiglia, l’amministrazione della giustizia e la religione (cioè l’avvento della civiltà) fecero sì che le belve umane avessero rispetto di se stesse e dei loro simili, i vivi cominciarono a sottrarre all’azione deleteria delle bestie e degli agenti atmosferici i miserandi resti mortali che la Natura, secondo fenomeni che si ripetono nel tempo, assegna a ben altre finalità. Un tempo le tombe erano attestazione di magnificenza per i posteri e altari per i figli; è da esse che provenivano i responsi delle divinità domestiche e il giuramento fatto sulle ceneri degli avi è sempre stato ritenuto degno della massima fedeltà

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Inutili sono le tombe dove domina la viltà, dove dorme ogni furore di gesta eroiche, dove il vivere civile è regolato dall’opulenza, dalla paura, e dove, quali malaugurate immagini dell’oltretomba, sorgono cippi celebrativi e monumenti architettonici sepolcrali. I dotti, i ricchi e il patriziato, classe dirigente del bel Regno d’Italia, già da vivi si sono procurati il posto per la loro sepoltura nei palazzi reali e, come unico vanto, ciascuno ha già il proprio stemma.

 

 

Pindemonte, le tombe dei Grandi incitano gli animi degli uomini generosi a compiere nobili imprese e ne rendono bello e santo il luogo dove esse si ritrovano tutte insieme. Quando io vidi il sepolcro dove riposa il corpo di quel Grande (Niccolò Machiavelli) il quale, nel fornire dei consigli ai governanti, in buona sostanza ne denunciò le immeritate glorie e mostrò al popolo di quali crudeltà dalle conseguenze nefaste costoro si erano resi responsabili; e il sepolcro di colui (Michelangelo Buonarroti) che, con la costruzione della basilica di S. Pietro in Vaticano, eresse una nuova sede alla Divinità (al Dio dei cristiani, non già agli dei pagani); e il sepolcro di colui (Galileo Galilei) che, scoprendo, sotto la volta del cielo, le leggi che regolano il moto dei vari corpi celesti mentre il sole, da fermo, li illumina e li scalda con i propri raggi, aprì la strada alle ulteriori scoperte astronomiche dell’Inglese (Isacco Newton); esclamai che sei una città felicissima, Firenze, per il clima salubre di cui puoi godere e per i corsi d’acqua che, scorrendo dall’Appennino, alimentano l’Arno che attraversa il tuo centro abitato! La luna, lieta per l’ambiente che ti circonda, con la sua luce d’argento riveste i tuoi colli in festa per il raccolto, e le numerose convalli, ricche di abitazioni e coltivate a oliveti, effondono un gradevole profumo che mandano verso il cielo. Firenze, tu per prima ascoltavi il poema [fosti patria] che alleggerì la collera dell’esule ghibellino (Dante Alighieri), e desti i natali ai cari genitori e la lingua a quella dolce voce di Calliope (Francesco Petrarca) che, adornando di un velo candidissimo l’amore, nudo in Grecia e nudo in Roma, lo ricollocò nelle braccia di Venere celeste, ma più beata perché, raccolte in un unico tempio, conservi le glorie italiane, forse le uniche da quando le Alpi indifese e l’onnipotente alternanza delle sorti umane ti hanno sottratto le armi e le ricchezze e, tranne la memoria della passata grandezza, tutto, poiché è proprio da dove rifulge la speranza di gloria per i giovani forti e per l’Italia, cioè da questo luogo, che prenderemo gli auspici migliori (per un futuro, a sua volta, migliore). E’ a queste tombe che Vittorio [Alfieri] venne spesso a ispirarsi: scosso dall’ira contro i numi tutelari della Patria, errava lungo l’Arno osservando i campi e il cielo e poiché nulla gli addolciva l’angoscia per la patria, aveva sul viso il pallore della morte e la dignità della speranza; ora riposa tra questi Grandi, ma le sue ossa fremono amor di patria. È proprio da queste tombe che nasce una religiosa pace e da qui un Dio infonde coraggio e forza, così come un Nume infuse la virtù e l’ira ai Greci che sconfissero i Persiani nella ben nota battaglia di Maratona, per la quale Atene consacrò le tombe ai suoi valorosi eroi. Il navigante che veleggiò sul mare dell’isola Eubea vedeva spade scontrarsi con violenza e il baluginio di elmi scintillare nella notte, e vide l’orrendo fuoco delle pire, vide fantasmi di guerrieri che, muniti di scintillanti armature, cercavano lo scontro, mentre il raccapricciante silenzio notturno che si spandeva per il campo di battaglia veniva squarciato dall’intenso frastuono di falangi, dal suono delle trombe di guerra e dall’incalzare di cavalli che scalpitavano sugli elmi dei moribondi tra il pianto, e [sentì] gli inni e il canto delle Parche.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Qui si recò Cassandra (la profetessa figlia di Priamo e di Ecuba) e quando la divinità la ispirò a vaticinare la fine della città di Troia, qui sciolse un canto amoroso in onore di quegli eroi, qui ne accompagnava i nipoti e a quei giovanetti amorevolmente insegnava il canto di dolore e sospirando diceva: – Se mai a voi giovani da Argo (in Grecia) dove, schiavi pascerete i cavalli a Diomede (figlio di Tideo) e al figlio di Laerte (Ulisse), sarà dato di ritornare in patria, non la troverete più. [Infatti] le mura di Troia, opera di Apollo, bruceranno sotto le macerie (incendio di Troia) –. Ma le divinità patrie avranno la loro sede in questo sepolcro giacché, anche nella sorte avversa, esse mantengono la dignità del loro nome. E voi, palme e cipressi che, messe a dimora dalle nuore di Priamo e innaffiate dalle lacrime delle vedove, ben presto crescerete, proteggete i miei padri. Chi eviterà di colpirvi con la scure (cioè chi si guarderà bene dal tagliarvi) sentirà meno il dolore per la morte dei suoi consanguinei e si potrà avvicinare degnamente all’altare. Un giorno vedrete vagare umilmente un cieco (il poeta Omero) il quale, protetto dalle vostre antichissime ombre, entrerà brancolando tra le tombe, le abbraccerà e le interrogherà. I più reconditi anfratti gemeranno e la tomba narrerà la storia di Ilio (città di Troia) per ben due volte rasa al suolo e due volte risorta splendidamente ricostruita lungo le vie deserte per rendere ancora più gloriosa l’ultima vittoria del fatale Achille. Il divino poeta, placando quelle anime tormentate, con il suo canto, in tutte le terre bagnate dal grande Oceano, farà vivere per l’eternità i principi greci. E tu, Ettore, sarai onorato con pianti ovunque il sangue versato per la Patria sarà considerato sacro e innegabile motivo di sofferenza, fino a quando il sole risplenderà sulle sciagure umane.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Deorum Manium jura sancta sunto
Duodecim tabulae 

 

 

All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne
confortate di pianto è forse il sonno
della morte men duro?
Ove piú il Sole
per me alla terra non fecondi questa
bella d’erbe famiglia e d’animali,
e quando vaghe di lusinghe innanzi
a me non danzeran l’ore future,
né da te, dolce amico, udrò piú il verso
e la mesta armonia che lo governa,
né piú nel cor mi parlerà lo spirto
delle vergini Muse e dell’amore,
unico spirto a mia vita raminga,
qual fia ristoro a’ dí perduti un sasso
che distingua le mie dalle infinite
ossa che in terra e in mar semina morte?
Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme,
ultima Dea, fugge i sepolcri: e involve
tutte cose l’obblío nella sua notte;
e una forza operosa le affatica
di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe
e l’estreme sembianze e le reliquie
della terra e del ciel traveste il tempo.
Ma perché pria del tempo a sé il mortale
invidierà l’illusïon che spento
pur lo sofferma al limitar di Dite?
Non vive ei forse anche sotterra, quando
gli sarà muta l’armonia del giorno,
se può destarla con soavi cure
nella mente de’ suoi? Celeste è questa
corrispondenza d’amorosi sensi,
celeste dote è negli umani; e spesso
per lei si vive con l’amico estinto
e l’estinto con noi, se pia la terra
che lo raccolse infante e lo nutriva,
nel suo grembo materno ultimo asilo
porgendo, sacre le reliquie renda
dall’insultar de’ nembi e dal profano
piede del vulgo, e serbi un sasso il nome,
e di fiori odorata arbore amica
le ceneri di molli ombre consoli.
Sol chi non lascia eredità d’affetti
poca gioia ha dell’urna;
e se pur mira
dopo l’esequie, errar vede il suo spirto
fra ‘l compianto de’ templi acherontei,
o ricovrarsi sotto le grandi ale
del perdono d’lddio: ma la sua polve
lascia alle ortiche di deserta gleba
ove né donna innamorata preghi,
né passeggier solingo oda il sospiro
che dal tumulo a noi manda Natura.
Pur nuova legge impone oggi i sepolcri
fuor de’ guardi pietosi, e il nome a’ morti
contende. E senza tomba giace il tuo
sacerdote
, o Talia, che a te cantando
nel suo povero tetto educò un lauro
con lungo amore, e t’appendea corone;
e tu gli ornavi del tuo riso i canti
che il lombardo pungean Sardanapalo,
cui solo è dolce il muggito de’ buoi
che dagli antri abdüani e dal Ticino
lo fan d’ozi beato e di vivande.
O bella Musa, ove sei tu? Non sento
spirar l’ambrosia, indizio del tuo nume,
fra queste piante ov’io siedo e sospiro
il mio tetto materno. E tu venivi
e sorridevi a lui sotto quel tiglio
ch’or con dimesse frondi va fremendo
perché non copre, o Dea, l’urna del vecchio
cui già di calma era cortese e d’ombre.
Forse tu fra plebei tumuli guardi
vagolando, ove dorma il sacro capo
del tuo Parini? A lui non ombre pose
tra le sue mura la città, lasciva
d’evirati cantori allettatrice,
non pietra, non parola; e forse l’ossa
col mozzo capo gl’insanguina il ladro
che lasciò sul patibolo i delitti.
Senti raspar fra le macerie e i bronchi
la derelitta cagna ramingando
su le fosse e famelica ululando;
e uscir del teschio, ove fuggia la luna,
l’úpupa, e svolazzar su per le croci
sparse per la funerëa campagna
e l’immonda accusar col luttüoso
singulto i rai di che son pie le stelle
alle obblïate sepolture. Indarno
sul tuo poeta, o Dea, preghi rugiade
dalla squallida notte. Ahi! su gli estinti
non sorge fiore, ove non sia d’umane
lodi onorato e d’amoroso pianto.

Dal dí che nozze e tribunali ed are
diero alle umane belve esser pietose
di se stesse e d’altrui, toglieano i vivi
all’etere maligno ed alle fere
i miserandi avanzi che Natura
con veci eterne a sensi altri destina.
Testimonianza a’ fasti eran le tombe,
ed are a’ figli; e uscían quindi i responsi
de’ domestici Lari, e fu temuto
su la polve degli avi il giuramento:
religïon che con diversi riti
le virtú patrie e la pietà congiunta
tradussero per lungo ordine d’anni.
Non sempre i sassi sepolcrali a’ templi
fean pavimento; né agl’incensi avvolto
de’ cadaveri il lezzo i supplicanti
contaminò; né le città fur meste
d’effigïati scheletri: le madri
balzan ne’ sonni esterrefatte, e tendono
nude le braccia su l’amato capo
del lor caro lattante onde nol desti
il gemer lungo di persona morta
chiedente la venal prece agli eredi
dal santuario. Ma cipressi e cedri
di puri effluvi i zefiri impregnando
perenne verde protendean su l’urne
per memoria perenne, e prezïosi
vasi accogliean le lagrime votive.
Rapían gli amici una favilla al Sole
a illuminar la sotterranea notte,
perché gli occhi dell’uom cercan morendo
il Sole; e tutti l’ultimo sospiro
mandano i petti alla fuggente luce.
Le fontane versando acque lustrali
amaranti educavano e vïole
su la funebre zolla; e chi sedea
a libar latte o a raccontar sue pene
ai cari estinti, una fragranza intorno
sentía qual d’aura de’ beati Elisi.
Pietosa insania che fa cari gli orti
de’ suburbani avelli alle britanne
vergini, dove le conduce amore
della perduta madre, ove clementi
pregaro i Geni del ritorno al prode
cne tronca fe’ la trïonfata nave
del maggior pino, e si scavò la bara.
Ma ove dorme il furor d’inclite gesta
e sien ministri al vivere civile
l’opulenza e il tremore, inutil pompa
e inaugurate immagini dell’Orco
sorgon cippi e marmorei monumenti.
Già il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo,
decoro e mente al bello italo regno,
nelle adulate reggie ha sepoltura
già vivo, e i stemmi unica laude.
A noi
morte apparecchi riposato albergo,
ove una volta la fortuna cessi
dalle vendette, e l’amistà raccolga
non di tesori eredità, ma caldi
sensi e di liberal carme l’esempio.
A egregie cose il forte animo accendono
l’urne de’ forti, o Pindemonte; e bella
e santa fanno al peregrin la terra
che le ricetta. Io quando il monumento
vidi ove posa il corpo di quel grande
che temprando lo scettro a’ regnatori
gli allòr ne sfronda, ed alle genti svela
di che lagrime grondi e di che sangue;
e l’arca di colui che nuovo Olimpo
alzò in Roma a’ Celesti; e di chi vide
sotto l’etereo padiglion rotarsi
piú mondi, e il Sole irradïarli immoto,
onde all’Anglo che tanta ala vi stese
sgombrò primo le vie del firmamento:
– Te beata, gridai, per le felici
aure pregne di vita, e pe’ lavacri
che da’ suoi gioghi a te versa Apennino!
Lieta dell’aer tuo veste la Luna
di luce limpidissima i tuoi colli
per vendemmia festanti, e le convalli
popolate di case e d’oliveti
mille di fiori al ciel mandano incensi:
e tu prima, Firenze, udivi il carme
che allegrò l’ira al Ghibellin fuggiasco,
e tu i cari parenti e l’idïoma
désti a quel dolce di Calliope labbro
che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma
d’un velo candidissimo adornando,
rendea nel grembo a Venere Celeste;
ma piú beata che in un tempio accolte
serbi l’itale glorie, uniche forse
da che le mal vietate Alpi e l’alterna
onnipotenza delle umane sorti
armi e sostanze t’ invadeano ed are
e patria e, tranne la memoria, tutto.
Che ove speme di gloria agli animosi
intelletti rifulga ed all’Italia,
quindi trarrem gli auspici. E a questi marmi
venne spesso Vittorio ad ispirarsi.
Irato a’ patrii Numi, errava muto
ove Arno è piú deserto, i campi e il cielo
desïoso mirando; e poi che nullo
vivente aspetto gli molcea la cura,
qui posava l’austero; e avea sul volto
il pallor della morte e la speranza.
Con questi grandi abita eterno: e l’ossa
fremono amor di patria. Ah sí! da quella
religïosa pace un Nume parla:
e nutria contro a’ Persi in Maratona
ove Atene sacrò tombe a’ suoi prodi,
la virtú greca e l’ira. Il navigante
che veleggiò quel mar sotto l’Eubea,
vedea per l’ampia oscurità scintille
balenar d’elmi e di cozzanti brandi,
fumar le pire igneo vapor, corrusche
d’armi ferree vedea larve guerriere
cercar la pugna; e all’orror de’ notturni
silenzi si spandea lungo ne’ campi
di falangi un tumulto e un suon di tube
e un incalzar di cavalli accorrenti
scalpitanti su gli elmi a’ moribondi,
e pianto, ed inni, e delle Parche il canto
.
Felice te che il regno ampio de’ venti,
Ippolito, a’ tuoi verdi anni correvi!
E se il piloto ti drizzò l’antenna
oltre l’isole egèe, d’antichi fatti
certo udisti suonar dell’Ellesponto
i liti, e la marea mugghiar portando
alle prode retèe l’armi d’Achille
sovra l’ossa d’Ajace: a’ generosi
giusta di glorie dispensiera è morte;
né senno astuto né favor di regi
all’Itaco le spoglie ardue serbava,
ché alla poppa raminga le ritolse
l’onda incitata dagl’inferni Dei.
E me che i tempi ed il desio d’onore
fan per diversa gente ir fuggitivo,
me ad evocar gli eroi chiamin le Muse
del mortale pensiero animatrici.
Siedon custodi de’ sepolcri, e quando
il tempo con sue fredde ale vi spazza
fin le rovine, le Pimplèe fan lieti
di lor canto i deserti, e l’armonia
vince di mille secoli il silenzio.
Ed oggi nella Troade inseminata
eterno splende a’ peregrini un loco,
eterno per la Ninfa a cui fu sposo
Giove, ed a Giove diè Dàrdano figlio,
onde fur Troia e Assàraco e i cinquanta
talami e il regno della giulia gente.
Però che quando Elettra udí la Parca
che lei dalle vitali aure del giorno
chiamava a’ cori dell’Eliso, a Giove
mandò il voto supremo: – E se, diceva,
a te fur care le mie chiome e il viso
e le dolci vigilie, e non mi assente
premio miglior la volontà de’ fati,
la morta amica almen guarda dal cielo
onde d’Elettra tua resti la fama. –
Cosí orando moriva. E ne gemea
l’Olimpio: e l’immortal capo accennando
piovea dai crini ambrosia su la Ninfa,
e fe’ sacro quel corpo e la sua tomba.
Ivi posò Erittonio, e dorme il giusto
cenere d’Ilo; ivi l’iliache donne
sciogliean le chiome, indarno ahi! deprecando
da’ lor mariti l’imminente fato;
ivi Cassandra, allor che il Nume in petto
le fea parlar di Troia il dí mortale,
venne; e all’ombre cantò carme amoroso,
e guidava i nepoti, e l’amoroso
apprendeva lamento a’ giovinetti.
E dicea sospirando: – Oh se mai d’Argo,
ove al Tidíde e di Läerte al figlio
pascerete i cavalli, a voi permetta
ritorno il cielo, invan la patria vostra
cercherete! Le mura, opra di Febo,
sotto le lor reliquie fumeranno.
Ma i Penati di Troia avranno stanza
in queste tombe; ché de’ Numi è dono
servar nelle miserie altero nome.
E voi, palme e cipressi che le nuore
piantan di Priamo, e crescerete ahi presto
di vedovili lagrime innaffiati,
proteggete i miei padri: e chi la scure
asterrà pio dalle devote frondi
men si dorrà di consanguinei lutti,
e santamente toccherà l’altare.
Proteggete i miei padri. Un dí vedrete
mendico un cieco errar sotto le vostre
antichissime ombre, e brancolando
penetrar negli avelli, e abbracciar l’urne,
e interrogarle. Gemeranno gli antri
secreti, e tutta narrerà la tomba
Ilio raso due volte e due risorto
splendidamente su le mute vie
per far piú bello l’ultimo trofeo
ai fatati Pelídi. Il sacro vate,
placando quelle afflitte alme col canto,
i prenci argivi eternerà per quante
abbraccia terre il gran padre Oceàno.
E tu onore di pianti, Ettore, avrai,
ove fia santo e lagrimato il sangue
per la patria versato, e finché il Sole
risplenderà su le sciagure umane.