Autori latini e guerra – vita e opere

VITA E OPERE DEGLI AUTORI TRATTATI

Caio Giulio Cesare 9
Il “De bello Gallico” 12
Cesare, i Galli e i Germani 14
L’assedio di Alesia e la resa di Vercingetorige 22
Il destino degli abitanti di Usselloduno 23
Marco Tullio Cicerone 24
Tito Lucrezio Caio 29
Caio Sallustio Crispo 33
Publio Virgilio Marone 35
Quinto Orazio Flacco 37
Albio Tibullo 39
Tito Livio 41
Lucio Anneo Seneca 42
Publio Cornelio Tacito 44
Autori cristiani 48
Agostino di Ippona 52
Graziano 55
Bernardo di Chiaravalle

CAIO GIULIO CESARE

Cesare ampliò i domini  di Roma  e governò su un territorio che andava dal Medio Oriente alla Gran Bretagna. Nacque 13 luglio del 100 a.C  . a  Roma, che in quell’ epoca  conteneva circa un  milione di abitanti  in circa 400 ettari di territorio, detenendo così  il primato su tutte le altre città per numero assoluto di abitanti e per   densità di popolazione. La sua   casa confinava con il quartiere più povero dell’URBE, la Suburra; come sosteneva  Giovenale, per entrare nel sobborgo bisognava prima fare  testamento perché gli abitanti di questo quartiere  erano ladri e assassini. Questo dimostra che la famiglia, pur essendo  era nobile,  non era ricchissima e Cesare per lungo tempo dovette fare i conti con le ristrettezze finanziarie, che superò contraendo debiti per cifre esorbitanti. Ricevette un’educazione da nobile grazie a sua madre, che gli ispirò  rispetto verso gli dei perché riteneva di discendere da Enea, figlio d’Anchise e della dea Venere; divenne così molto colto e convinto di non essere un comune mortale. Da giovane era  bello e intelligente, ma un po’ effeminato  come d’altronde quasi tutti i romani e i greci: per loro, infatti, le femmine erano inferiori ai maschi e indegne di veri sentimenti amorosi. Questo non impediva i matrimoni, infatti a soli 14 anni si sposò Cossuzia, figlia di un ricco mercante;  a 16 anni toccò alla figlia di Cinna, Cornelia. Per i Romani, in effetti,  il matrimonio aveva solo la funzione d’interesse: il primo matrimonio di Cesare era servito per impossessarsi del patrimonio della moglie; il secondo gli serviva come  per la sua carriera  politica, infatti, Cinna era, a quell’epoca, un uomo potente e noto esponente del Senato.

Nella sua vita politica Cesare seguì l’esempio dello zio Caio Mario, l’uomo che sconfisse i Teutoni e i Cimbri, dal quale apprese la tecnica del combattimento nell’esercito e il modo di dominare la scena politica servendosi del favore delle legioni.  Così aveva fatto anche Silla, sostenitore degli ottimati, la parte più conservatrice della nobilitas, grande  nemico di Mario e della famiglia di Cesare. Per combattere gli avversari pubblicò le tavole di proscrizione  cioè tabelle che contenevano i nomi dei nemici di Silla, che potevano essere uccisi da chiunque; questa situazione  costrinse Cesare  a fuggire da Roma per evitare di essere ucciso.Evitò così questo periodo tragico della storia romana, in cui  la popolazione era terrorizzata dai  cacciatori di taglie che entravano con la violenza nelle case, uccidevano i proscritti e spesso, per sbaglio o per crudeltà, anche persone che semplicemente avevano  lo stesso nome o abitavano nelle vicinanze.

Nell’84 a.C. Cesare, per sfuggire alla persecuzione, si recò in Bitinia presso il re Nicomede lì, essendo bello e raffinato, divenne l’amante del re, famoso per le sue tendenze sessuali e ne sfruttò le tendenze per assicurarsi il suo sostegno.

L’arte oratoria era alla base della carriera nella politica e così decise di recarsi a Rodi,  presso l’accademia d’Apollonio, scuola  che frequentò anche Cicerone, ma fu catturato dai pirati e venne  liberato da un riscatto racimolato tra i suoi amici. Dopo esser stato rilasciato, riuscì a formare una ciurma di pirati  con i quali gruppo assalì e depredò la nave dei  suoi rapitori e li mise a morte, Con il bottino così ottenuto pagò almeno parte dei suoi debiti. Sposò  successivamente Pompea, nipote di Silla, quando morì la sua seconda moglie; dimostrandosi così abile a cogliere la possibilità di una pacificazione con la famiglia dell’ex nemico; la donna rimase al suo fianco per tutto il resto della vita nonostante i ripetuti tradimenti.

Anche se non perdeva occasione per parlare delle sue origini divine, Cesare si sentiva tagliato fuori dalla politica e dalla possibilità di primeggiare, cosa alla quale lo spingeva un’indomabile ambizione. Aveva ormai quarant’anni, perciò doveva agire in fretta. L’accordo con Pompeo e Crasso (primo triumvirato) gli consentì di giungere al consolato e vedersi affidato l’incarico di sottomettere le tribù galliche ribelli. L’accordo, passato alla storia con il nome di primo triumvirato, prevedeva la spartizione tra di loro delle cariche più prestigiose. Non era un accordo nato sulla base di una identità di vedute sulla conduzione dello Stato, era  piuttosto basato su questioni di opportunismo; ognuno aveva bisogno dell’altro per motivi personali e di sete di potere.
Già dopo pochi anni gli screzi fra Pompeo e Crasso rischiarono di porre fine all’accordo che solo la tenacia di Cesare riuscì a tenere in piedi e a rilanciare dopo uno storico incontro a tre tenutosi a Lucca. Il legame divenne ancora più forte quando Pompeo sposò Giulia, la figlia di Cesare.

Il triumvirato, però, non era destinato a durare a lungo; la morte di Giulia, che pose fine al legame familiare fra Cesare e Pompeo, la scomparsa dello stesso Crasso nella famosa battaglia di Carre e i crescenti conflitti tra i due triumviri rimasti, decretarono la fine dell’accordo.
Pompeo, inoltre, politicamente si avvicinò sempre piu all’aristocrazia senatoriale che vide in lui un baluardo da contrapporre a Cesare che ritenevano una pericolosa minaccia per la Repubblica.

Cesare  iniziò quindi la sua carriera da anziano, fu tuttavia in grado di imporre ordine e disciplina alle  sue legioni  soprattutto durante la guerra contro le popolazioni celtiche, i cui guerrieri, contrariamente ai romani, si avventavano sul nemico senza  un piano di attacco.

Fu uno dei pochi comandanti che seguono il loro esercito in battaglia e gli garantiva vittorie, gloria e bottino condividendo la vita dei soldati anche nei suoi aspetti più duri.

Fronteggiò Vercingetorige, un guerriero scaltro che, dopo la sconfitta uscì dalla città di Alesia e si rivolse a Cesare con la celebre frase “uomo fortissimo hai sconfitto un uomo forte”.Dopo le numerose battaglie vinte Cesare ottiene prestigio, popolarità e, soprattutto un grande potere che provoca timore nel senato e  getta un’ombra persino Pompeo, fino ad allora l’uomo più potente di Roma.

Dopo l’alleanza tra i suoi nemici Pompeo e Crasso, Cesare optò per la guerra civile varcando il Rubicone nel 49 a.C.(il Rubicone era il confine stabilito da Silla; nessun comandante poteva varcarlo senza prima sciogliere  sue legioni).

Si scatenò cosi’ la guerra civile: Pompeo decide di lasciare l’Italia a Cesare per formare un esercito in Spagna e in Oriente attaccando l’avversario su due fronti, ma venne sconfitto. Fuggito in Egitto, fufatto decapitare da Tolomeo che venne successivamente ucciso. Cesare infatti non era disposto ad accettare che un  re straniero mettesse a morte un romano, per cui si schierò con Cleopatra, sua sorella, che aspirava a sostituirlo sul trono. Sebbene ne fosse affascinato, non si dimenticò assolutamente di Roma e sfruttò l’alleanza/relazione con la regina egizia  per aumentare l’aura di divinità che lo circondava. Dopo aver sbaragliato i suoi avversari, rientrò nella capitale da sovrano, seguito poi da Cleopatra e la nascita di un figlio maschio indusse i romani a temere che stesse per instaurarsi una monarchia assoluta come quella egizia. Per attirare  il favore della plebe e mascherare la volontà di diventare re,  Cesare offrì feste e banchetti organizzando spettacoli grandiosi: riuscì persino ad allagare una parte di Roma per simulare uno scontro navale al quale parteciparono centinaia di  gladiatori.

Per quanto riguarda la politica interna, distribuì  terre ai suoi soldati, aiutò economicamente i plebei e iniziò una lunga serie di lavori pubblici facendo ricostruire la curia (sede del Senato), erigere la Basilica Giulia, costruire un foro in suo onore, il Teatro Marcello e altri templi. Progettò persino la deviazione del Tevere, opera che non fu mai realizzata.

La sua politica mirava alla pacificazione generale, per questo non pubblicò alcuna tavola di proscrizione, salvando la vita a molti suoi oppositori, tra i quali lo stesso Cicerone.Con questo generoso gesto Cesare segnò la sua fine: dopo essere diventato dittatore, alle idi di marzo del 44 a.C.,venne circondato dai senatori (compreso il figlio adottivo Bruto) e  pugnalato. Forse, se avesse fatto uccidere i nemici politici probabilmente la sua vita sarebbe stata più lunga; sulla fine di Giulio Cesare molto si è discusso in passato, perché è difficile valutare in modo obiettivo il gesto dei congiurati.

Il tradimento veniva considerato nell’antichità un gravissimo crimine e in epoca cristiana lo si riteneva  il peggior peccato.  Dante, quando descrive l’inferno, parla dello stagno di Cocito,  un lago ghiacciato nel quale è conficcato  il Demonio, mostro con sei ali e tre teste. Egli tiene tra le sue fauci coloro che sono considerati i tre maggiori traditori della storia: Giuda, traditore di Cristo  Cassio e Bruto,  i capi della congiura contro Cesare. Nel Purgatorio tuttavia rappresenta Catone l’Uticense, affidandogli la custodia del secondo regno ultraterreno. Catone, nemico giurato di Cesare,  si era suicidato in Utica  quando aveva appreso la sua vittoria per non sottostare ad un regime politico tirannico e Dante lo onora facendo dire da Virgilio “libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta”. Sembra contraddittorio mettere all’inferno Bruto e Cassio e tra gli spiriti salvi Catone, ma è contraddittoria la situazione storica, Cesare infatti era al tempo stesso un uomo generoso che perdonò i suoi nemici ed un aspirante tiranno.

Secondo la leggenda Bruto venne perseguitato dallo spirito di Cesare che gli si mostra prima della sconfitta subita a Filippi contro Ottaviano,Antonio e Lepido(il secondo triunvirato).E’ anche vero però che l’unico modo per fermare il suo  progetto di monarchia era la morte.

Il “DE BELLO GALLICO”

Quest’opera, una delle più importanti della letteratura latina antica e ancora ai nostri giorni oggetto di dibattiti di natura storiografica, è composta da 8 libri (l’ultimo attribuito ad Aulo Irzio, luogotenente di Cesare), in cui Caio Giulio Cesare, appartenente alla gens Giulia, discendente di Enea il Troiano (così lui diceva), descrive, esprimendosi in 3^ persona singolare (egli) pur scrivendo lui stesso, le vicende delle Guerre galliche che gli portarono la conquista della Gallia a nord della Provenza e della Britannia Meridionale (considerati allora “i confini del mondo”).

Cesare ha composto i Commentarii de Bello Gallico con due intenti principali:

  • l’intento di informare la popolazione romana sulle  sue spedizioni in Gallia e lasciare ai posteri un ricordo delle sue imprese; infatti, anche se indirettamente, egli con questo testo ha fornito la maggior quantità di notizie sugli usi, sui costumi, sulle tradizioni e sulle cose che riguardano le tribù galliche;
  • l’intento politico, infatti Cesare intendeva fronteggiare ed eliminare un’ accusa di natura politico-militare scatenata contro di lui dai suoi avversari.

Questa accusa, che avrebbe dovuto condurlo di fronte ad un tribunale, impedirgli di celebrare il trionfo e di presentare un’eventuale ulteriore candidatura al consolato, era quella di aver commesso contro i Galli veri e propri di crimini di guerra; egli non negò di aver agito duramente ma spiegò il motivo delle sue scelte in modo tale che la maggior parte dei Romani finì per giustificarle. Bisogna infatti tenere presente che all’epoca non esisteva alcuno strumento legislativo che garantisse i diritti dei vinti, i quali erano completamente alla mercè dei vincitori ed erano stati molti i generali romani che avevano infierito sul nemico sconfitto, autorizzando i soldati a violenze e saccheggi o punendo con severità i ribelli. Si trattava quindi di un’accusa prevalentemente fittizia sollevata dai sostenitori dei patrizi e di Pompeo i quali temevano il prestigio di Cesare e volevano impedire  il suo ritorno a Roma come vincitore.

Cesare non affronta direttamente l’argomento, si limita a descrivere i suoi nemici, in particolare Vercingetorige, come dei ribelli, criminali messi al bando dalla loro stessa famiglia e a raccontare, apparentemente senza manifestare emozioni, i saccheggi e gli omicidi ai danni dei mercanti romani messi in opera dagli insorti.

Quindi, in definitiva, Cesare scrivendo “IL  DEBELLO  GALLICO” volle dimostrare due cose:

  1. egli non aveva fatto niente di illegale; se si era comportato con crudeltà era stato per difendere Roma e il suo popolo, in particolare per garantire ai mercanti romani che si recavano in ogni parte del mondo allora conosciuto la sicurezza contro eventuali aggressioni;
  2. egli aveva diritto a vantaggi e privilegi in quanto si era sacrificato per la patria e con le sue imprese aveva aperto un’epoca di forte espansione territoriale ed economica di Roma.

Questa dichiarazione di lealtà nei confronti dello stato romano doveva anche difenderlo dalla seconda accusa con cui  dovette fare i conti successivamente, alimentata dai suoi nemici nel periodo in cui egli, una volta sconfitto definitivamente Pompeo, governò Roma praticamente da solo: quella di aspirare alla restaurazione della monarchia. Si trattava di un’accusa fondata, che si basava su alcuni atteggiamenti ambigui tenuti da Cesare: egli, infatti, indossava permanentemente, nelle manifestazioni pubbliche, il mantello rosso e la corona di alloro, oggetti che un generale era tenuto a vestire solo nel giorno del trionfo perché venivano considerate simbolo del favore degli dei e del temporaneo legame tra il vincitore e le divinità. Era tuttavia la relazione che egli intratteneva con Cleopatra, regina d’Egitto, della famiglia dei Tolomei, ad alimentare i sospetti sulle sue ambizioni. Egli, con la regina, generò un figlio, chiamato Tolomeo Cesare; avendo ottenuto un erede da una grande sovrana quale Cleopatra,  si sentiva legittimato, in un certo senso, a governare come un re, prospettiva che i Romani avevano ragione di temere.

MARCO TULLIO CICERONE
Marco Tullio Cicerone nasce nel 106 a.C. ad Arpino, da agiata famiglia equestre; compie ottimi studi di retorica e filosofia a Roma, e inizia a frequentare il foro. Stringe con Tito Pomponio Attico un’amicizia destinata a durare tutta la vita. Presta servizio militare nella guerra sociale agli ordini di Pompeo Strabone, il padre di Pompeo il Grande. Dopo il debutto come avvocato compie un lungo viaggio in Grecia e in Asia: studia filosofia e  retorica. Al ritorno sposa Terenzia, dalla quale gli nascono Tullia e Marco. Nel 70 sostiene trionfalmente l’accusa dei siciliani contro l’ex governatore Verre, e si conquista fama di oratore principe. Nel 63 è console, e reprime la “ congiura” di Catilina. Dopo la formazione del primo triumvirato (cui egli guardava con preoccupazione: l’alleanza tra il potere militare di Pompeo, la grande ricchezza di Crasso e la popolarità crescente di Cesare – proprio perché realizzata come patto privato – gli appariva insidiosa per l’autorità senatoria), il suo astro inizia a declinare; nel 58 deve recarsi in esilio, con l’accusa di avere messo a morte senza processo i complici di Catilina; la sua casa viene rasa al suolo. Richiamato a Roma, vi torna trionfalmente  e  tenta una difficile collaborazione con i triumviri continuando a svolgere attività forense. Compone il De oratore, il De re publica, e inizia a lavorare al De le gibus. Successivamente è governatore in Cilicia, ma accetta di malavoglia di allontanarsi da Roma. Allo scoppio della guerra civile, nel 49, aderisce con lentezza alla causa di Pompeo. Si reca in Epiro con gli altri senatori, ma non è presente alla battaglia di Farsalo.  Dopo la sconfitta di Pompeo ottiene il perdono di Cesare. Divorzia dalla moglie poi gli  muore la figlia Tullia; inizia la composizione di una lunga serie di opere filosofiche, mentre il dominio di Cesare lo tiene lontano dagli affari pubblici. Nel 44, dopo l’uccisione di Cesare, torna alla vita politica; inizia, a partire dalla fine dell’estate, la lotta contro Antonio (Filippiche). Dopo il volta faccia di Ottaviano, che, abbandonata la causa del senato, si stringe in triumvirato con Antonio e Lepido, il nome di Cicerone viene inserito nelle liste di proscrizione. Viene ucciso dai sicari di Antonio il 7 dicembre del 43.
Le opere
Gli scritti retorici (De oratore, 55; Orator, 46; Brutus, 46;) si inseriscono nel dibattito fra le tendenze oratorie del tempo: l’Atticismo, che propugnava un ideale di eloquenza asciutto e disadorno, e l’Asianesimo che mirava a uno stile ricco e magniloquente. All’incirca negli stessi anni scrisse le opere filosofiche. Pur spinto a questa attività anche da dolorosi avvenimenti privati, tra cui la morte della amatissima figlia Tullia, ebbe come intento primario quello di prodesse civibus, giovare allo stato e ai suoi cittadini. Trattò quasi ogni ramo della filosofia: questioni riguardanti la conoscenza (Accademica), la religione (De natura deorum, De divinatione, De fato), la morale (De finibus bonorum et malorum, De officiis) e, più generalmente, problemia relativi all’uomo: la felicità (Tusculanae disputationes), la vecchiaia )Cato maior de senectute), l’amicizia (Laelius de amicizia). Anche la struttura dello stato è oggetto della sua riflessione; egli propugna la teoria della concordia ordinum, un  principio in base al quale la concordia in uno stato è affidata all’equilibrio della sua classe dirigente, che non deve opprimere la plebe. La plebe però deve rimanere al suo posto, non aspirare a posizioni di comando. Testimonianze della sua ricerca linguistica sono anche nell’epistolario, corpus di circa 900 lettere, fonte per noi di una conoscenza diretta, insolitamente approfondita, soprattutto per un autore dell’antichità.

L’opera filosofica e il pensiero ( a cura di Diego Fusaro). L’antiepicureo Cicerone fu filosofo che compose molti libri, scritti in gran parte nell’arco di due anni, tra il 46 e il 44 a.C., quando la vittoria di Cesare lo costrinse a tenersi lontano dalla vita politica e la morte della figlia Tullia lo spinse a cercare nella filosofia una medicina dell’animo.
Cicerone era stato uno dei protagonisti delle convulse lotte politiche della prima metà del primo secolo a.C.; nel momento in cui venne costretto a un ozio forzato, egli scrisse di filosofia, ma anche allora per lui la politica rimase la dimensione fondamentale della vita. Infatti, una delle ragioni della sua condanna dell’epicureismo è anche l’apoliticità di questa scuola. I contenuti degli scritti filosofici di Cicerone non sono radicalmente nuovi rispetto a quelli elaborati dalla tradizione filosofica greca; egli, infatti, condivide con buona parte degli uomini colti del suo tempo l’idea che le alternative filosofiche fondamentali siano già date. Il problema non è dunque quello di trovare nuove filosofie o nuove basi teoriche, in base alle quali organizzare la propria vita, la tradizione filosofica ha già provvisto a costruire queste basi. Si tratta soltanto di saggiarle e renderle operanti, oltre che preliminarmente accessibili ad un pubblico di lingua latina. Di qui l’importante lavoro linguistico compiuto da Cicerone, al quale la tradizione filosofica occidentale deve l’introduzione di termini come moralis, qualitas, notio e così via. Lo strumento letterario di cui Cicerone si avvale nella sua opera di diffusione della filosofia greca non è la poesia, ma il dialogo. Esso gli consente di esporre argomentazioni opposte, pro e contro una determinata tesi. Così avviene per i problemi gnoseologici negli Accademici, che ci sono giunti incompleti, per i problemi fisico/teologici in Sulla natura degli dei, Sulla Divinazione, Sul fato, e, per quelli etici, nelle Dispute tusculane e Sui termini estremi dei beni e dei mali. Il modello è dato dalla pratica giudiziaria, nella quale le parti contendenti si affrontano davanti ai giudici.
Il pubblico a cui Cicerone si rivolge è il giudice che deve pronunciare il verdetto, dopo aver ascoltato le argomentazioni pro e contro presentate dai protagonisti del dialogo. Si tratta della tecnica di discussione tipica dell’Accademia scettica, da Arcesilao a Carneade, che anche Cicerone fa propria, in quanto gli appare più consona ad un atteggiamento libero. Le altre scuole filosofiche, soprattutto la stoica e l’epicurea, chiedono ai loro adepti un asservimento totale nei confronti del patrimonio dottrinale della scuola; la filosofia dell’Accademia, invece, lascia liberi, secondo Cicerone, di formulare il giudizio dopo aver ascoltato le parti contendenti. Solo al confronto tra tesi opposte si può sperare di ricavare qualcosa che sia almeno vicino al vero, ossia il probabile, ciò che può essere saggiato e approvato. Sullo sfondo di queste tesi si staglia la figura del romano di ceto elevato, che non può asservirsi ai dettati di una scuola né praticare la filosofia come un’attività professionale in competizione con dei rivali. All’autorità della scuola, Cicerone oppone il giudizio libero, corroborato dalla tradizione romana e dai valori impliciti in essa : i filosofi greci in contrasto tra loro trovano così i veri arbitri in Roma, in filosofi liberi dai vincoli di scuola. Diversa appare l’impostazione degli scritti ciceroniani Sulla repubblica e Sulle leggi, pervenuteci incompiuti, e della sua ultima opera Sui doveri, ove, anzichè presentare e discutere tesi contrapposte, si espongono dottrine positive sulla preferibilità della costituzione mista, sulle leggi, sulle varie occupazioni confacenti alle funzioni e al rango occupato da ciascuno nella società. Ma in queste opere, che pure attingono al patrimonio concettuale dei filosofi, soprattutto di Platone, domina Roma con le sue istituzioni e i suoi valori. In questo caso non c’è più spazio per tesi contrapposte; occorre invece far emergere l’immagine totalmente positiva dei costumi antichi e della concordia tra i ceti, cardini della grandezza di Roma oltre che modello e programma politico anche per il presente.
Nelle pagine di Cicerone antichi personaggi romani, come Catone o Scipione, diventano eroi filosofici : non è necessario essere filosofi di professioni per non temere la morte. A proposito dell’attività politica del popolo romano nel suo complesso, essa è rappresentata nella Repubblica come una”sapientia”che si è realizzata in leggi e istituzioni, più che in parole, come era avvenuto in Grecia. Lo scritto Sui doveri, poi, si presenta come una sorta di lunga lettera indirizzata al figlio Marco, con esplicito intento pedagogico. Qui Cicerone, ispirandosi in parte a Panezio, si appropria di una forma rielaborata e addolcita di stoicismo, spogliata dai paradossi tipici di questa scuola. Egli sostiene che sui problemi dei comportamenti da assumere nella vita quotidiana non è possibile rinviare il giudizio o abbracciare posizioni scettiche, tanto meno contrapporsi ai valori diffusi; la soluzione più adeguata gli appare consistere in un giusto contemperamento di virtù e utilità.

Innanzitutto, va detto che gran parte dell’opera di Cicerone è pervasa da un difficile tentativo di ricerca di un complesso equilibrio tra istanze di ammodernamento e necessità di conservazione dei valori tradizionali. Dietro la vicenda intellettuale dell’Arpinate si profila una società attraversata da spinte contrastanti, spesso laceranti : l’afflusso di ricchezze dai paesi conquistati ha da tempo reso anacronisticamente improponibile la rigida moralità delle origini; ma il veloce distacco dalle virtù e dai valori che avevano fatto la grandezza di Roma mette ora in forse la stessa sopravvivenza dello stato repubblicano. D’altronde lo scopo stesso delle sue opere filosofiche è dare una solida base ideale, etica, politica a una classe dominante (gli optimates) il cui bisogno di un ordine non si traduca in ottuse chiusure, cui il rispetto per la tradizione nazionale (mos maiorum) non impedisca l’assorbimento della cultura greca; una classe che l’assolvimento dei doveri verso lo Stato non renda insensibile ai piaceri di un otium nutrito di arti e letteratura, né, in generale, di quello stile di vita garbatamente raffinato che riassume il termine di humanitas.

Quella di Cicerone, chiaramente, rimane un’ottica di parte, legata al progetto di egemonia di un blocco sociale (sostanzialmente i ceti possidenti) : egli è fermamente contrario a qualsiasi progetto di redistribuzione delle terre pubbliche e di sgravio dei debiti, Cicerone scorge la via d’uscita dalla crisi che minaccia la repubblica nella concordia dei ceti abbienti, senatori e cavalieri (concordia ordinum). La sua, in fin dei conti, è e rimane una natura moderata in campo politico. In un secondo tempo, però, Cicerone espone una nuova versione della propria teoria sulla concordia dei ceti abbienti. In quanto semplice intesa tra il ceto senatorio ed equestre, la concordia ordinum si era rivelata fallimentare: Cicerone ne dilata ora il concetto in quello di consensus omnium bonorum, cioè la concordia attiva di tutte le persone agiate e possidenti, amanti dell’ordine sociale e politico, pronte all’adempimento dei propri doveri nei confronti della patria e della famiglia. Il dovere dei boni è quello di non rifugiarsi egoisticamente nel perseguimento dei propri interessi privati a discapito di quelli pubblici: essi devono fornire un sostegno attivo agli uomini politici che rappresentano la loro causa. La stesura del De officiis venne iniziata probabilmente nell’autunno del 44: si tratta stavolta di un trattato, non di un dialogo, dedicato al figlio Marco, allora studente di filosofia ad Atene. L’opera è il prodotto di un’elaborazione rapidissima, per lo più contemporanea alla composizione di alcune delle Filippiche: mentre sta combattendo colui che ai suoi occhi sta portando la patria alla rovina definitiva, Cicerone cerca nella filosofia i fondamenti di un progetto di vasto respiro, indirizzato alla formulazione di una morale della vita quotidiana che permetta all’aristocrazia di riacquistare il pieno controllo della società. La base filosofica viene offerta dallo stoicismo moderato di Panezio

Nel De Officiis Cicerone afferma di rivolgersi in primo luogo ai giovani: ciò conferma la funzione pedagogica che egli in generale attribuisce al suo lavoro di divulgazione filosofica. I 3 libri di cui il De officiis è composto trattano rispettivamente dell’honestum, dell’utile e del conflitto tra di loro. Lo stoicismo di Panezio si differenziava dallo stoicismo comune soprattutto per un giudizio assai più positivo sugli istinti da parte di Panezio: le virtù fondamentali venivano reinterpretate in modo da essere viste come organico sviluppo di questi istinti fondamentali. La virtù fondamentale per Panezio era la socialità, cui si affiancava la beneficenza: se alla prima spetta di “dare a ciascuno il suo”, la seconda ha il compito di collaborare positivamente al benessere della comunità e di mettere a disposizione dei concittadini la persona e gli averi del singolo. La beneficenza teorizzata da Panezio corrispondeva benissimo allo stile di vita degli aristocratici romani, che, attraverso gli officia e l’elargizione nei confronti dei concittadini, sapevano procurarsi un seguito politico capace di innalzarsi alle più alte cariche dello stato; tuttavia per Cicerone la beneficenza può causare seri problemi: può essere strumento di corruzione, infatti, il donare denaro oppure l’effettuare benefici ingiusti o ancora abbassare le tasse. Perciò l’Arpinate sottolinea con forza che la beneficenza non deve essere posta al servizio delle ambizioni personali. Alla tipica virtù cardinale della fortezza Panezio aveva sostituito la grandezza d’animo; ebbene, Cicerone riprende questa concezione, ma, paradossalmente, a fondamento della magnitudo animi il De officiis pone un disprezzo quasi ascetico per tutti i beni terreni, come gli onori, la ricchezza, il potere.

Sunt autem quaedam officia etiam adversus eos servanda, a quibus iniuriam acceperis. Est enim ulciscendi et puniendi modus; atque haud scio an satis sit eum, qui lacessierit iniuriae suae paenitere, ut et ipse ne quid tale posthac et ceteri sint ad iniuriam tardiores. Atque in re publica maxime conservanda sunt iura belli. Nam cum sint duo genera decertandi, unum per disceptationem, alterum per vim, cumque illud proprium sit hominis, hoc beluarum, confugiendum est ad posterius, si uti non licet superiore. Quare suscipienda quidem bella sunt ob eam causam, ut sine iniuria in pace vivatur, parta autem victoria conservandi i, qui non crudeles in bello, non inmanes fuerunt, ut maiores nostri Tusculanos, Aequos, Volscos, Sabinos, Hernicos in civitatem etiam acceperunt, at Karthaginem et Numantiam funditus sustulerunt; nollem Corinthum, sed credo aliquid secutos, oportunitatem loci maxime, ne posset aliquando ad bellum faciendum locus ipse adhortari. Mea quidem sententia paci, quae nihil habitura sit insidiarum.

TITO LUCREZIO CARO

Il testo è tratto dal sito di Diego Fusaro
http://www filosofico.net  e      http://www.geocities.com/dyeg83/lucrezio.htm

Della vita di Tito Lucrezio Caro rimane poco o nulla: due righe di san Gerolamo ed un accenno (o forse due) di Cicerone, entrambi ideologicamente avversi alla dottrina epicurea e, perciò, quantomeno da considerare con ponderatezza. Si è solitamente propensi a collocare la sua nascita tra il 98 e il 96 a.C. e la sua morte nel 55. Il silenzio su questo grande poeta e filosofo, che dovette provocare comunque un certo scalpore nella Roma di allora, è tuttavia emblematico della stigmatizzazione che dovette subire il “De rerum natura”, lontano com’era sia dagli allora in voga poetae novi di ispirazione alessandrina, sia dallo stoicismo eclettico di Cicerone, sia dall’esaltazione della politica attiva o della guerra fatta da Catilina e Cesare. Nato nei burrascosi tempi della guerra civile fra Silla e Mario, probabilmente proveniva da Napoli o da Roma (dalla sua opera e dal modo in cui si rivolge all’aristocratico Memmio non si riesce però ancora a capire se fosse anch’egli un aristocratico oppure un liberto) e altrettanto probabilmente trascorse una vita tormentata da forti passioni, come si rileva in molti passi del “De rerum natura”. Va, tuttavia, respinta la teoria di San Girolamo riguardo la presunta follia di L. causata da un filtro d’amore: si pensa infatti che l’accusa sia nata nel IV secolo al fine di screditare la polemica antireligiosa del nostro poeta. A parte il rigore intollerante di Catone il Censore, la cultura e il pensiero greco erano penetrati, attentamente filtrati, nel mondo romano. Naturalmente venivano eliminati tutti i risvolti del pensiero greco pericolosi per la conservazione dello stato: non a caso Cicerone trovava un elemento di forte contrasto nella dottrina di Epicuro: l’epicureismo era visto come una dottrina che portava alla dissoluzione della morale tradizionale soprattutto perché, predicando il piacere come sommo bene, distoglieva i cittadini dall’impegno politico per la difesa delle istituzioni. Inoltre l’epicureismo, negando l’intervento divino negli affari umani, portava molti svantaggi anche alla classe dirigente la quale non poteva più usare la religione come strumento di potere. Poco si conosce riguardo la penetrazione dell’epicureismo nelle classi inferiori della società romana; probabilmente divulgazioni dell’epicureismo circolavano presso la plebe attratta dalla facilità di comprensione di quei testi e dagli inviti al piacere in essi contenuti. Per divulgare a Roma la dottrina epicurea, Lucrezio scelse la forma del poema epico didascalico. Vi è, tuttavia, una contraddizione nell’agire di Lucrezio: se da un lato condanna la poesia per la sua stretta connessione col mito e per il fatto che può arrecare infelicità agli uomini, dall’altro ne fa uso per divulgare i principi della dottrina epicurea. Con la forma scelta da Lucrezio, così alta e grandiosa, per divulgare il suo messaggio si è pensato di dover spiegare anche l’atteggiamento di Cicerone nei suoi confronti: evidentemente Cicerone non poteva accettare gli ideali filosofici epicurei, ma forse è proprio l’eccezionalità della forma poetica che ha spinto Cicerone a non tenere conto di Lucrezio nella sua polemica all’epicureismo.

LA CONCEZIONE FILOSOFICA DI EPICURO

Per Epicuro la filosofia ha in primo luogo una funzione terapeutica : “Vana è la parola del filosofo se non allevia qualche sofferenza umana” , egli diceva . Una delle metafore da lui preferite per indicare l’obiettivo della vita filosofica é la quiete del mare dopo la tempesta , ma questa situazione di quiete é minacciata e impedita dalle credenze infondate che sovente si generano in noi e procurano ansie e timori : l’ uomo che vive con animo sereno é paragonato a coloro che , al sicuro sulla terraferma , osservano distaccati il mare in tempesta , l’ altrui pericolo . La filosofia deve dunque liberarci da queste credenze e condurci in un porto sicuro senza turbamenti . A tale scopo essa deve preliminarmente mostrare che cosa si può realmente conoscere e come lo si può conoscere . La filosofia si articola pertanto in tre parti : dottrina della conoscenza , fisica ed etica . La dottrina epicurea della conoscenza , o canonica , ravvisa il punto di partenza e il criterio o canone , del conoscere nelle percezioni sensibili , le quali sono prodotte da qualcosa di esterno o interno a noi . Le sensazioni sono sempre vere , non ingannano mai sulla rappresentazione sensibile dell’oggetto , ma non tutte sono egualmente evidenti . Soltanto quelle evidenti sono testimonianze attendibili sulla realtà oggettiva ; le altre , invece , attendono conferma dalle prime . Il ripetersi di rappresentazioni sensibili evidenti e simili tra loro dà luogo ai concetti generali o prolessi , termine che significa letteralmente anticipazioni . Tali concetti ( per esempio il concetto di uomo o di cavallo ) consentono , infatti , di conoscere in anticipo , in base alle sensazioni già avute dai singoli oggetti , che cosa li contraddistingue . E così , vedendo un certo oggetto , in base a queste anticipazioni , sarà possibile riconoscerlo e dire : questo oggetto che ora percepisco , presentando un certo insieme di proprietà già conosciute mediante un determinato concetto o anticipazione , é un cavallo o un uomo e così via . L’esperienza si genera , infatti , dalla conservazione nella memoria di tali concetti . L’errore nasce , invece , quando le parole che usiamo significano concetti che non corrispondono all’oggetto , e ciò deriva da quello che l’opinione aggiunge alla sensazione . Ciò può dipendere dall’ambiguità delle parole o dalla confusione tra rappresentazioni evidenti e non evidenti . Le rappresentazioni evidenti sono il canone , o criterio , che consente di testimoniare a favore o contro i giudizi che mediante i concetti ci formiamo sugli oggetti . La conferma meno forte é data dall’assenza di una attestazione contraria : per esempio , la proposizione che gli uomini sono mortali riceve una conferma di questo genere dal fatto che la nostra esperienza non ci attesta alcuna eccezione rispetto ad essa . La percezione e i concetti sono collegabili tra di loro in modo da dar luogo a inferenze , che permettono di risalire da ciò che é chiaro a ciò che non lo é : questo punto é di estrema importanza per costruire i capisaldi della dottrina fisica .

LA FISICA E LA COSMOGONIA

La fisica epicurea é , infatti , caratterizzata dal risalire , mediante ragionamento , da ciò che é evidente ai sensi a principi che tali non sono , ossia gli atomi e il vuoto . Epicuro riprende per lo più questi concetti da Democrito e ritiene che un numero infinito di corpi indivisibili , che si muovono entro il vuoto infinito , é ciò che può spiegare il mondo fisico quale appare ai nostri sensi . Egli inferisce questa tesi a partire dall’esperienza , la quale ci attesta che nulla può nascere dal nulla e nulla può finire nel nulla , altrimenti il tutto si sarebbe dissolto col tempo : di qui si giunge alla conclusione che l’universo é sempre stato e sempre sarà quale é ora . D’altra parte , é evidente ai sensi che i corpi dotati esistono e sono dotati , sicchè possiamo inferirne l’esistenza del vuoto , che non é di per sé evidente e contro alla quale aveva già dimostrato Melisso . Infatti se il vuoto non esiste , non può esistere il movimento ; ma il movimento esiste , e tutti possiamo vederlo , dunque esiste anche per forza il vuoto . I corpi , a loro volta , sono suscettibili di disgregazione , ma poichè nulla scompare nel nulla , ciò significa che essi sono composti di entità che permangono indistruttibili : queste entità sono gli atomi . Gli atomi sono di forme innumerevoli , ma non sono dotati di qualità come colore , temperatura e così via . Per Democrito gli atomi , probabilmente , non avevano peso , nè esisteva una direzione privilegiata del loro movimento . Epicuro , invece , attribuisce peso agli atomi , forse in base alla tesi che un corpo privo di peso non é in grado di muoversi . Nell’universo infinito non ci sono un centro , un alto , un basso assoluti : ma per Epicuro si può parlare di un alto e basso relativi ed é appunto verso il basso che gli atomi si muovono grazie al loro peso . Ma se gli atomi si muovono verso il basso verso linee parallele , come é possibile la formazione di corpi ? In queste condizioni , infatti , gli atomi non potrebbero incontrarsi e dare luogo ad aggregazioni . I testi conservatrici di Epicuro non rispondono a questo interrogativo , ma , secondo Lucrezio , Epicuro avrebbe introdotto a questo proposito la dottrina del clinamen o declinazione . Attraverso di essa , egli attribuiva agli atomi anche una tendenza a deviare casualmente dal loro moto perpendicolare verso il basso . In tal modo , gli eventi , e in particolare le aggregazioni tra atomi che danno luogo alla formazione dei corpi composti , perdono ogni carattere di necessità . Riprendeva la dottrina democritea dell’atomismo e dell’infinità : però Democrito diceva che gli atomi si muovevano con moti corpuscolari , Epicuro invece si serve dei concetti di alto e basso , sebbene nell’infinito essi non esistano : gli atomi cadono dall’alto verso il basso ( immaginiamoci una specie di pioggia di atomi ) : ma se andasse così , a rigore , il mondo non potrebbe generarsi perchè gli atomi non potrebbero mai scontrarsi tra loro e cadrebbero verso il basso all’infinito : quindi Epicuro introduce questa teoria della deviazione o klinamen secondo la quale gli atomi avrebbero deviazioni tali da consentir loro di scontrarsi e di creare il mondo . E’ una sorta di correzione del meccanicismo , ossia del mondo visto come grande macchina dove il semplice sbattere d’ali di una farfalla ha il suo spessore . Il klinamen é imprevedibile e questo stona con il meccanicismo . La fisica epicurea , quindi , oltre a non essere farina del suo sacco ( non a caso Cicerone dice ” in physicis totus est alienus ” , ossia sottolinea come Epicuro sia totalmente dipendente da altri ” fisici ” , e soprattutto Democrito ) , é forse il suo ” punto debole ” , probabilmente quello meno riuscito .Va poi detto che Epicuro ha anticipato per alcuni aspetti la fisica moderna : l’idea del klinamen ( e della sua imprevedibilità ) é simile al principio di indeterminazione definito da un fisico moderno tedesco , Werner Heisenberg : ” E’ impossibile conoscere simultaneamente la posizione esatta e la esatta quantità di moto di una particella subatomica . Tanto più esattamente conosciamo la posizione , tanto meno sicuri siamo della quantità di moto , e viceversa ” : é una questione strutturale : l’ osservazione stessa che si effettua di una cosa la modifica già : è già legata a noi per il fatto che la si osservi ; la situazione delle particelle é indeterminata . La struttura dell’universo é spiegabile univocamente , secondo Epicuro , soltanto mediante la nozione di atomo e vuoto presenti nell’universo . Egli respinge la costruzione di modelli astronomici e matematici per spiegare i fenomeni celesti ; su questo punto egli conduce una polemica esplicita nei confronti dell’ Accademia platonica , ma di fatto si allontana anche dalla pratica degli astronomi del suo tempo . La cosmologia di Epicuro poggia su un assunto razionale , in quanto esclude qualsiasi intervento divino e qualsiasi antropoformismo nella concezione degli astri e dei corpi celesti . A differenza di Aristotele Epicuro non ammette alcuna materia privilegiata per i corpi celesti . Nella ” Natura ” , poi , conduce una serrata polemica contro la cosmologia platonica del ” Timeo “ . Egli rifiuta la composizione degli elementi e del cosmo sulla base dei 5 poliedri regolari , che Platone non é stato in grado di dimostrare indivisibili : se non sono indivisibili , dice Epicuro , perchè mai si dovrebbe ritenere che le altre figure siano formate da questi , se questi a loro volte sono formati da altri ? Per quanto riguarda la metereologia , ossia quei fenomeni e eventi lontani da noi , dei quali la causa non é evidente , Epicuro ritiene che siano possibili molteplici spiegazioni . Così per il sorgere e il tramontare degli astri , per le loro dimensioni , per il formarsi di tuoni , lampi , terremoti , venti e così via . Di questi fenomeni si possono fornire più spiegazioni che risultano tutte accettabili , purchè in accordo con i fenomeni e non smentibili da parte di altri fenomeni . Epicuro rifiuta la spiegazione di questi eventi in termini di teleologia ( o finalismo ) , alla maniera di Platone e di Aristotele : essi non avvengono in vista di un fine . Soprattutto egli esclude che gli dei agiscano come cause o agenti provvidenziali sul mondo degli uomini ; in tal modo egli si allontana sia dalle credenze della religione popolare , sia dalle teorie elaborate in proposito dai filosofi .

LA TEOLOGIA

Epicuro ammette l’esistenza degli dei . Un argomento a favore di essa é dato dal consenso di tutti gli uomini : ciò su cui tutti gli uomini sono concordi deve essere vero . Inoltre , tutti ritengono che gli dei siano immortali , felici e dotati di figura umana . Ma queste credenze non sono altro che prolessi , concetti derivati dall’esperienza : per esempio , durante il sonno si hanno visioni di dei , le quali , quindi , come ogni prolessi , derivano da oggetti reali . Un’ altra dimostrazione dell’esistenza divina é proprio data dai sogni , dove compaiono anche le divinità , che sono per Epicuro antropomorfi , uguali a come ci appaiono nei sogni . Per Epicuro la divinità non si interessa minimamente delle vicende umane ed egli lo dimostra con un ragionamento simile a quello aristotelico : la divinità é una realtà beata , e se si occupasse delle vicende umane come potrebbe esserlo ? Sarebbe un’ autodiminuzione occuparsi di tali cose . Ma gli dei dove stanno ? Epicuro é un materialista e quindi deve pur collocarli da qualche parte : egli li colloca negli ” intermundia ” , ossia gli spazi che separono un mondo dall’altro . Tuttavia dire che gli dei non si curano delle vicende umane non vuol dire che siano irrilevanti : essi sono un modello da imitare per l’uomo ( come Epicuro era per i suoi seguaci ) ; gli dei vivono la migliore delle vite , piena di felicità e l’uomo imitandoli può condurre una vita uguale alla loro : da qui nasce la teoria secondo cui l’uomo é uguale agli dei , può assimilarsi ad essi… . L’unica differenza tra uomo e dei é che loro hanno la vita eterna ( e di conseguenza la felicità eterna ) , l’uomo no . Ma che cosa mi importa se c’è la felicità quando io non ci sono più , diceva Epicuro ? ” Non é infatti per me cosa piccola o priva di importanza ciò che rende la mia disposizione d’ animo simile a quella degli dei e indica che non siamo inferiori alla natura incorruttibile e beata , nonostante la nostra condizione mortale . Perchè , da vivi , possiamo godere di una felicità pari a quella degli dei anche se si sia ricevuta una diminuzione ; ma se non si é in grado di sentire , in che modo si può ricevere una diminuzione ? ” ( Lettera alla madre ). Se per Aristotele la divinità muoveva il mondo , per Epicuro essa muove gli uomini , che devono tentare di imitarla ( esattamente come i pianeti per Aristotele imitavano l’ eternità e la perfezione di Dio ) . Tra l’altro questa concezione della divinità che non interviene nel mondo umano sortisce anche un altro effetto : dissipa il timore per la divinità , che non va temuta in quanto non interverrà mai nel nostro mondo . Per Epicuro la religione tradizionale degenera in superstizione e atteggiamenti ridicoli dati dalla paura che l’uomo prova nei confronti di dio : ” non é irreligioso chi rinnega gli dei del volgo , ma chi le opinioni del volgo applica agli dei ” dice Epicuro . Epicuro utilizza a proposito degli dei che appaiono nel sonno la dottrina , già in parte democritea , secondo la quale dagli oggetti emanano incessantemente flussi di atomi , detti eidwla ( letteralmente immagini ) , i quali conservano fedelmente la configurazione degli oggetti da cui provengono , se non subiscono modificazioni nel loro tragitto . Ma gli dei , secondo Epicuro , non sono composti come gli altri oggetti , altrimenti sarebbero anch’essi sottoposti ai processi di disgregazione . Gli dei , invece , sono immortali , immuni da dolori , e vivono beati in quelli che in latino saranno detti intermundia , gli spazi che separano tra loro gli infiniti mondi . La condizione di beatitudine , ossia l’assenza di ogni genere di turbamento , é usata da Epicuro per dimostrare che gli dei non si occupano del mondo e delle cose umane . Attribuire agli dei il governo del mondo equivarrebbe a privarli della beatitudine , che é propria della loro condizione divina . Altro argomento , forse di origine epicurea , contro la provvidenza divina é quello che fa leva sulla presenza del male nel mondo . Se gli dei intervengono nelle vicende del mondo , perchè non eliminano il male ? Le risposte possibili hanno la forma di una disgiunzione completa : o perchè non possono o perchè non vogliono o perchè nè possono nè vogliono . Ma se non possono , gli dei sono impotenti ; e se non vogliono sono invidiosi , ossia non sono divinità buone . Impotenza e invidia sono caratteristiche incompatibili con la nozione di divinità . D’altra parte se possono e vogliono , come mai il male continua a essere presente nel mondo ? L’unica soluzione che consente di non attribuire alla divinità caratteristiche negative consiste , allora , nel riconoscere che gli dei non si occupano del mondo e delle faccende umane , perchè in fondo sarebbe un’autodiminuzione da parte loro ( come direbbe Aristotele ) . Gli dei sono indifferenti all’uomo , nè minacciosi nè benigni , e la natura non é un ordine protettivo nel quale gli esseri umani sono inseriti . Con queste argomentazioni Epicuro ritiene di eliminare uno dei timori che attanagliano gli uomini e impediscono loro di raggiungere la serenità : il timore degli dei , di un loro intervento e della loro possibilità di assegnare premi o castighi . Ma gli uomini vivono anche in preda ad un altro timore , il timore della morte , con il conseguente desiderio di immortalità ; al filosofo , invece , interessa la qualità , non la quantità della vita . Epicuro cerca quindi di elaborare un’argomentazione che liberi gli uomini anche da questo timore . Le premesse di essa sono date dai principi della dottrina fisica . L’uomo é un composto di atomi e vuoto , in quanto anche l’anima é costituita da un tipo particolare di atomi di forma sferica . La morte equivale alla disgregazione di questo composto ; ma con essa viene meno ogni possibilità da parte dell’uomo di percepire questo evento , perchè la sensibilità é legata alla condizione di integrità di quel composto atomico che é l’uomo . Questo punto é compendiato da Epicuro nell’affermazione che la morte non va temuta , perchè quando ci siamo noi non c’é lei , e quando c’é lei non ci siamo noi . L’ uomo di fronte alla morte deve ragionare così : se la vita trascorsa é stata colma di gioia ci si può ritirare da essa come un convitato sazio e felice dopo un lauto banchetto ; se al contrario é stata segnata da dolori e tristezze , perchè desiderare che essa prosegua ? Solo gli stolti vogliono ad ogni costo continuare a vivere , anche se nulla di nuovo li può attendere perchè accadono sempre e solo le stesse cose ! La liberazione da questi due timori é per Epicuro condizione fondamentale per raggiungere il fine della vita umana , essa fa parte del quadruplice farmaco ( tetrafarmakos ) predisposto dalla filosofia , il quale provvede a liberare anche da altri due timori , quello del dolore e dell’irraggiungibilità della felicità . In altre parole nella teoria del quadrifarmaco Epicuro dice che la filosofia 1) libera l’uomo dalla paura degli dèi , che non si curano delle vicende umane 2) libera l’uomo dalla paura della morte , che é semplicemente una disgregazione di atomi ; 3) dimostra la brevità e provvisorietà del dolore : il dolore se é intenso é breve , se é lungo non é intenso e se é intensissimo porta in fretta alla morte , la quale é assoluta insensibilità ; 4) dimostra la facile raggiungibilità della felicità, che consiste nel piacere ( quello catastematico ) . L’apprestamento dei piaceri é compito della terza parte della filosofia , l’etica . Già Eudosso aveva sottolineato che tutti gli esseri aspirano al piacere . Anche Epicuro ripone nel piacere ( in greco edonh ) il fine della propria vita umana , ma , diversamente da quanto aveva pensato Platone nel ” Gorgia ” , piacere e dolore non sono contrari , bensì contradditori , nel senso che se c’é l’uno non c’é l’altro e viceversa . Come le sensazioni e i concetti sono i criteri di verità , così le sensazioni di piacere e di dolore sono i criteri della scelta . Il piacere é dunque definito in primo luogo come assenza di dolore ( alupia ) e caratterizza la condizione di chi gode di una buona condizione di salute fisica e psichica . Il dolore , invece , sia fisico sia psichico , é turbamento di questa condizione naturale . Turbamenti di questo genere sono per esempio i timori degli dei e della morte , prodotti da false credenze .

IL PIACERE

Partendo dalla constatazione che ogni piacere è di per sé un bene , ma non è detto che le sue conseguenze nel tempo siano vantaggiose per noi , Epicuro distingue tra piacere cinetico o in movimento , il quale accompagna un processo ed é sempre mescolato al turbamento o al dolore , e piacere catastematico o stabile ( in greco edonh katasthmatikoV ) , proprio invece da uno stato privo di dolori . Contrariamente ai cirenaici , che indicavano nel piacere del momento l’obiettivo da perseguire , Epicuro ripone il fine nel piacere catastematico . Esso coincide con la completa soddisfazione del desiderio , che di per sè é una condizione dolorosa legata a uno stato di mancanza . I desideri , a loro volta , si distinguono in desideri naturali e necessari , per esempio il cibo , e desideri non necessari . Soltanto i primi possono e devono essere integralmente soddisfatti , secondo Epicuro , mentre gli altri non possono mai essere soddisfatti completamente e quindi si accompagnano sempre al dolore . Il piacere stabile per Epicuro é l’assenza di dolore , mentre i piaceri in movimento sono quelli accompagnati dal dolore ( come già diceva Platone nel ” Gorgia “ ). Epicuro ha distinto: 1) piaceri naturali e necessari, 2) piaceri naturali ma non necessari, 3) piaceri non naturali e non necessari.

1. Fra i piceri del primo gruppo egli pone i piaceri che sono strettamente legati alla conservazione della vita dell’individuo, essi sono gli unici che veramente giovano sottraendo il dolore del corpo (mangiare quando si famen, bere quando si ha sete….) Questi piaceri vanno sempre e comunque soddisfatti perchè hanno un preciso limite dalla natura che permette l’eliminazione del dolore

2. Nel secondo gruppo abbiamo tutti quei desideri e piaceri che sono variazioni superflue dei piaceri del primo gruppo: mangiare troppo, bere bevande raffinate. Questi piaceri non hanno più quel limite perché non sottraggono il dolore corporeo, ma variano solo il piacere e possono provocare un notevole danno.

3. Abbiamo i piaceri vani nati cioè dalle vani opinioni degli uomini, sono tutti desideri legati al desiderio di ricchezza, potenza e onore.

Questi piaceri non tolgono dolore al corpo ma provocano sempre turbamento all’anima. Va fatto notare inoltre il carattere sensiobile del piacere, sono tutti piaceri che gli uomini hanno dai sensi. Tutto ciò poiché secondo Epicuro la sensazione è il canone fondamentale della vita dell’uomo. Occorre precisare che se per edonismo si intende una dottrina che indica nel piacere il fine della vita umana , Epicuro é un edonista , ma se per edonismo s’intende una dottrina che indica questo fine nel perseguimento di qualsiasi piacere , Epicuro non é un edonista . Egli , anzi , ben lungi dal farsi sostenitore di una vita dissoluta , contrappone la frugalità , legata al soddisfacimento dei bisogni naturali e necessari , al lusso e alla crescita illimitata e artificiale dei desideri ; il piacere , infatti , non si può accrescere a suo avviso oltre un certo limite . Inoltre , proprio perchè il piacere coincide con l’assenza di dolori , per perseguirlo occorre effettuare una sorta di calcolo dei piaceri , ponendo sulla bilancia anche i piaceri o i dolori futuri che possono conseguire dalla scelta presente di un piacere o di un dolore ; la scelta migliore sarà quella che darà luogo al piacere maggiore : dice infatti Epicuro: ” Per ognuno dei desideri va posta questa domanda: che cosa mi accadrà se si realizza il mio desiderio, e che cosa, se non si realizza ? ” . Il filosofo non avrà dunque timore dei dolori , perchè se sono forti , durano poco , mentre se durano a lungo , col tempo non sono più sentiti . Lo stesso Epicuro conservò un atteggiamento di tranquilla serenità di fronte alle malattie che lo tormentarono fino alla morte ( un tumore alla prostata ) . La felicità consisterà in una vita colma di piaceri , nel significato che si é chiarito . In tal modo , il filosofo raggiungerà quella ataraxia , assenza di turbamenti , che lo farà vivere come un dio tra gli uomini . Anche per Epicuro , come già per Aristotele , il modello ultimo della vita filosofica é la vita divina , ma questa non consiste più , come per Aristotele , nell’attività teoretica di studio disinteressato dell’universo e della natura , bensì nell’esercizio privo di turbamenti della saggezza nella condotta della propria vita . L‘uomo é libero nel perseguimento del piacere e della felicità . Il clinamen , eliminando la necessità assoluta e introducendo un elemento di casualità nell’universo e quindi anche nel moto degli atomi che costituiscono l’anima umana , é la condizione di possibilità dell’azione libera dell’uomo ( il libero arbitrio ) . Epicuro non voleva cadere in contraddizione e cadere in contraddizione significava cadere nel determinismo : la sua é una filosofia con scopi morali e un insegnamento morale sarebbe privo di senso se si fosse convinti che tutto avviene in maniera necessaria , compreso il comportamento : che senso avrebbe , infatti , dire ad uno di comportarsi in un modo , se non vi é libertà di scelta ? E’ per questo che Epicuro e la sua filosofia ruotano attorno ad un indeterminismo naturale , che già abbiamo incontrato nel klinamen : vi é un margine di indeterminazione che garantisce la libertà : l’uomo può scegliere come agire e dunque l’insegnamento morale ha un suo senso : é sensato dare consigli all’uomo su come comportarsi , visto che egli può scegliere . E del resto, nella ‘Lettera a Meneceo’, Epicuro dichiara che ‘ piuttosto che essere schiavi del destino dei fisici, era meglio allora credere ai racconti degli dei, che almeno offrono la speranza di placarli con le preghiere, invece dell’atroce, inflessibile necessità ‘ . Abbiamo già detto che Epicuro é vicino alla fisica moderna per l’indeterminismo ; ora aggiungiamo che egli lo é anche a riguardo delle spiegazioni multiple che egli fornisce : infatti oltre che all’etica , Epicuro si occupa anche di fisica : infatti può essere utile conoscere come é fatta la realtà per saper vivere in modo più sereno ( vedi la religione ) . Spiegare in termini fisici certi eventi dà serenità : i fulmini , i tuoni , i terremoti … Questo non toglie la gravità dell’evento , ma tuttavia dissipa le paure irrazionali . Non sono eventi divini , ma fisici : spiegazioni ad essi ce ne sono svariate ed é impossibile sapere quella esatta : più di una può essere valida . L’accettazione di più spiegazioni ha valenza etica : l’importante é sapere che é spiegabile in termini fisici : la fisica moderna é un pò dello stesso parere di Epicuro : il fenomeno della luce , per esempio , ha dato vita a parecchie dispute nel corso della storia : vi fu chi disse che essa era di origine corpuscolare , chi invece sostenne che fosse ondulatoria ; poi si é scoperto che alcuni fenomeni luminari sono corpuscolari , altri ondulatori : la luce può quindi essere sia l’una sia l’altra cosa . Così é anche per Epicuro .

LA SOCIETA’

Per Epicuro , però , la piena realizzazione dei fini umani non é raggiunta attraverso la partecipazione attiva alla vita politica e associata : su questo punto egli si allontana decisamente dal Platone della ” Repubblica “ e in parte anche da Aristotele . La società e le tecniche si sono costituite e sviluppate sotto la spinta della ricerca dell’utile , ossia per raggiungere il piacere ed evitare il dolore , ma , secondo Epicuro , il vero luogo in cui il piacere e la felicità possono essere perseguiti e raggiunti é la piccola comunità di amici raccolti intorno ad un maestro , cioè la scuola filosofica , non la città . La città per Epicuro é propriamente soltanto condizione negativa rispetto a questo scopo . Egli definisce , inoltre , la giustizia come un patto o contratto ( nomoV ) stipulato allo scopo di non recare o subire danni . Essa quindi non é una virtù cooperativa , come aveva voluto Platone , ma una convenzione , dettata non da obblighi morali nè dalla natura , bensì dall’utile individuale . Lo scopo é quello della protezione e della difesa : acconsentire di non danneggiare altri a patto che essi non danneggino me . La città come istituzione dovrebbe garantire rispetto di questo patto , ma la vita politica appare a Epicuro come un terreno di conflitti e competizioni , dunque , soltanto quando é l’unica via per garantire la propria sicurezza , essa deve essere praticata , mentre in ogni altra circostanza , l’uomo saggio si asterrà da essa . A questo proposito va senz’altro citato il motto di Epicuro ” vivi di nascosto “ ( in Greco laqe biwsaV ) al quale possiamo affiancare quello di Ovidio : ” Bene qui latuit , bene vixit “ . Ciò non significa vivere una vita solitaria o rompere i legami con la città alla maniera dei cinici . Si tratta , invece , di non ricercare nella città la felicità e l’autosufficienza che soltanto i legami di amicizia possono assicurare . Epicuro ravvisa , infatti nell’ amicizia un grande bene , ossia una causa di massimo piacere e felicità . E l’amicizia é realizzata pienamente soltanto nella piccola cerchia della scuola filosofica , al riparo dalle tempeste della vita. Epicuro stesso sentiva fortemente questo sentimento tanto che fece di tutto ( e ci riuscì ) per far liberare un amico fatto prigioniero a Corinto , come testimoniano i papiri di Ercolano . Il giardino era un luogo privato dove l’amicizia era centrale : tra l’altro l’amicizia é l’unico sentimento coerente alle dottrine epicuree : la politica va evitata , le passioni anche ( in quanto piacere dinamico ) . Se le passioni vanno eliminate , la dimensione sessuale per Epicuro é invece connaturale all’uomo e non va eliminata : Epicuro proponeva un uso terapeutico della vita sessuale , che non va ripudiata perchè permette la perpetrazione della specie ; senz’altro la ricerca efferata del piacere va eliminata . Epicuro a differenza di Platone , dice che l‘amore fisico é connaturale all’uomo , mentre l’ erwV va abolito : é passionale e non fa che creare nell’uomo un male interiore . L’amicizia rimane il migliore dei sentimenti perchè é distante dalla politica e dall’amore : vi é per Epicuro nell’ amicizia una serenità più profonda , superiore a quella dell’amore , perché più facilmente si può conservare libera da sentimenti che procurano dolore come la gelosia o il dolore del distacco o la paura di non essere riamati. L’atteggiamento di Epicuro verso gli altri uomini è riassumibile nella sua massima: “E’ non solo più bello ma anche più piacevole fare il bene anziché riceverlo”. In questa massima, il piacere assurge a fondamento e a giustificazione della solidarietà fra tutti gli uomini. Con i suoi insegnamenti, spiegando che ‘ non gioverebbe a niente il procurarsi sicurezza nei riguardi degli altri uomini finchè si continuasse a nutrire timore riguardo a ciò che sta sopra di noi, o sottoterra, o in generale nell’infinito ‘, Epicuro riuscì a prestar soccorso (in greco epikouroV vuol proprio dire ‘soccorritore’) agli uomini, incapaci di condurre la loro vita serenamente. Se l’epicureismo si spense fu soprattutto per via del cristianesimo, che aveva una concezione della vita diametralmente opposta. Certo, già a Roma la dottrina epicurea era stata vista come pericolosa per i tradizionali valori ( i mores maiorum ), ma fu il cristianesimo a darle il colpo di grazia, forse anche per il fatto che i pagani si appellarono più allo stoicismo e al platonismo che non all’epicureismo. E così, per tutto il Medioevo, la nobilissima teoria di Epicuro, fu vista come eresia e non a caso Dante pone tutti gli Epicurei nell’Inferno, poichè per essi l’anima muore insieme al corpo.

L’ OPERA DI LUCREZIO


http://www.oilproject.org/lezione/de-rerum-natura-lucrezio-caro-commento-epicuro-10947.html

*Religio: Il “De rerum natura” si apre con l’invocazione a Venere, dea dell’amore, unica a poter placare la sete di sangue di Marte, dio della guerra: Lucrezio vive i turbolenti anni della rivolta si Spartaco, della guerra di Gallia e forse anche delle ostilità fra Cesare e Pompeo, e vorrebbe un ritorno alla pace, ostacolata dalle ambizioni e dalla brama di potere della classe politica romana. La via che Lucrezio trova per affrontare i mali della vita è la dottrina di Epicuro, cantato come simbolo della ratio umana, che fuga i miasmi della religione e della superstizione e prende coscienza dello stato umano. All’inizio del poema Lucrezio invita il lettore a non considerare subito empia la dottrina che egli si accinge ad esporre, e a riflettere su quanto, al contrario, sia davvero crudele ed empia la religione tradizionale (emblema ne è il sacrificio di Ifigenia, la figlia di Agamennone sacrificata dal padre per ingraziarsi gli dèi, o anche l’immolazione del vitellino e la descrizione della madre che lo cerca, disperata): la religione è in grado di sopprimere e condizionare la vita di tutti gli uomini immettendo nel loro cuore un seme di paura: ma se gli uomini sapessero che dopo la morte non c’è più nulla, smetterebbero di essere succubi della superstizione religiosa e dei timori che essa comporta. L’accesa lotta alla religio è certamente la parte piú eterodossa della filosofia di Lucrezio : Epicuro non aveva cosí marcate tendenze atee, auspicava piuttosto un ritorno ad un culto piú semplice. *Natura: Per insegnare agli uomini come la dottrina epicurea possa servire da tetrafarmaco, e combattere cioè la paura per morte, malattia, dolore e dei, Lucrezio inizia la sua descrizione della natura. Tutto ciò che ci circonda è formato da piccolissimi granelli indivisibili, gli atomi, i semina rerum o genitalia corpora come li chiama il poeta per enfatizzare il loro originario ruolo di creazione. Ogni pianta, pietra, uomo è formato da atomi, e cosí persino l’animo umano; ed ogni cosa è destinata a nascere e disfarsi in eterno; solo gli atomi sono immortali e non i loro aggregati. In questo mondo, regolato dalle leggi meccaniche che governano le particelle elementari, c’è comunque spazio per la libertà: all’origine dell’universo c’è una deviazione del moto atomico, un clinamen , che ha dato il via alla formazione delle cose ed al gioco infinito della natura. *Morte : Dopo aver descritto la natura della materia l’autore invita i suoi lettori (rappresentati da Memmio) ad accettare la morte come qualcosa di ineluttabile e comunque esterna all’uomo: quando noi siamo non c’è morte, quando c’è la morte noi non siamo: invece di preoccuparsi della propria fine l’uomo dovrebbe occuparsi della vita e non sprecarla poltrendo od inseguendo stupide ambizioni *Sensi e amore: Il IV quarto tratta dei sensi, della loro veridicità, di come possano essere turbati. I sensi, per Lucrezio, non fanno altro che captare dei flussi atomici particolari: sentiamo perché arrivano degli atomi alle nostre orecchie e vediamo perché ne arrivano altri ai nostri occhi. È dai sensi che hanno origine ogni forma di conoscenza e la ragione umana, non crollerebbe soltanto tutta la ragione, ma anche la vita stessa rovinerebbe di schianto, se tu non osassi fidare nei sensi (IV, vv. 507-8). Anche stavolta, dopo aver cercato di trasmette l’atarassia epicurea, Lucrezio si allontana dalla calma del suo maestro e descrive con profonda partecipazione quanto piú può turbare i sensi, le passioni amorose e carnali, a cui dedica i vv. 1026-1287. Personalità contrastata fra ratio e furor, Lucrezio, come scrisse Schwob, “conoscendo esattamente la tristezza e l’amore e la morte, continuò a piangere e a desiderare l’amore e a temere la morte”. *Civiltà e peste: Nel libro seguente il poeta descrive dettagliatamente la formazione del mondo e la nascita della civiltà: I re cominciarono a fondare città e a stabilire fortezze, per averne difesa e rifugio a sé stessi, e divisero i campi e il bestiame, assegnati a seconda della forza, dell’ingegno e della bellezza di ognuno (V, vv. 1008-1111), senza però cadere in tentazioni positiviste: con la nascita della civiltà nascono anche l’ambizione e la cupidigia, contro cui Lucrezio si scaglia con forza: Insomma, Lucrezio pone molta attenzione sul progresso dell’uomo e ne delinea gli effetti positivi e quelli negativi. Tra questi ultimi ha molto rilievo il fatto che il progresso ha portato con sé una grave decadenza morale e il sorgere di bisogni innaturali. Epicuro aveva infatti prescritto di evitare i desideri innaturali e non necessari, e di badare solo al soddisfacimento di quelli necessari: gli unici requisiti essenziali per essere un uomo veramente felice sono il non provare la fame, la sete e il freddo. Bisogna abbandonare gli sprechi inutili per indirizzarsi verso i piaceri naturali. Anche nel discusso finale dell’opera, la descrizione della tremenda peste di Atene, il poeta si distacca dalla pretesa leggerezza dell’epicureismo, per immergersi completamente nella malattia e nelle morti: probabilmente l’opera non doveva avere questo finale (è comunque appurato che dovesse essere il sesto l’ultimo libro e non moltissimi versi alla chiusura del poema), mancando la descrizione delle sedi degli dei e la spiegazione di come l’epicureismo possa aiutare ad affrontare persino i mali piú oscuri come la peste; il passo rimane comunque emblematico del tormentato animo lucreziano, che in questa descrizione è piú vicino al gusto dell’orrido di stoici come Seneca o Lucano che non al calmo filosofo del Giardino. *Politica: Seguendo gli insegnamenti del maestro Epicuro (‘vivi al di fuori della sfera politica’), Lucrezio rifiuta la politica e vede in essa una fonte di affanni e di tormenti per l’anima umana. Il saggio deve, inoltre, abbandonare le inutili ricchezze e allontanarsi, poi, dalla vita politica, dedicandosi a coltivare lo studio della natura con gli amici più fidati, somma ricchezza della vita umana. Lucrezio sottolinea la vacuità e l’inutilità di ogni forma di potere: solo distanti dalla vita politica si può contemplare il mondo serenamente, e guardare tutto e tutti con occhio distaccato, così come è soave guardare dalla terraferma il mare in tempesta e gli uomini che vengono tormentati, compiacendosi dei mali da cui si è indenni.

CAIO SALLUSTIO CRISPO

Vita Nasce ad Amiterno, nella Sabina Orientale, odierna l’Aquila. Di famiglia plebea ma agiata, vive in una regione montuosa di popolazione tradizionalista e devota. Giunge a Roma in giovane età per completare gli studi. Legato a Cesare e suo acceso sostenitore, viene espulso dal senato per indegnità morale, per una ritorsione dei nobili. Nella guerra civile segue Cesare, che gli affida numerosi incarichi militari e civili. Nominato governatore dell’Africa Nova (territori sottratti a Giuba), viene accusato de repetundis (concussione)ma viene aiutato da cesare. Grazie a quie profitti acquista gli horti Sallustiani, punto d’incontro per gli intellettuali, tra il Pincio e il Quirinale. Morto Cesare si ritira a vita privata dedicandosi alla storiografia. Scrive Scrive 3 opere a carattere storiografico, le prime 2 di carattere monografico: Bellum Catilinae (la congiura di Catilina del 63); bellum Iugurthinum (sulla guerra condotta contro il numida Giugurta), Historiae(rimaste interrotte, narrano gli avvenimenti dal 78 al 63). Ha inoltre scritto due Epistulae ad Cesarem senm de re publica e una Invectiva in Ciceronem, probabilmente scritti dalle scuole di retorica dopo la sua morte; e un poema didascalico, l’Empedoclea.

Concezione della storia Cesariano convinto, ex tribuno della plebe decide di farsi storico di Roma quando si vede preclusa la carriera politica. Nella mentalità romana il bene facere era considerato più glorioso del bene dicere.egli continua a ritenere le attività pubbliche superiori a quelle private e la riflessione storica si rivela come l’unica possibilità di servire degnamente le istituzioni. Egli vuole narrare per episodi, le gesta dei Romani iniziando dalla congiura di Catilina,passa poi alla guerra giugurtina in cui si contrasta la boria dei nobili. Vuole darsi ragione della grave crisi che Roma sta attraversando da decenni, sceglie gli argomenti in cui può individuare gli episodi emblematici dai quali è scaturita la crisi, è una storiografia politica:indagare il passato per capire il presente (archeologia). Sceglie un impianto di tipo monografico perché vuole concentrarsi su un fatto decisivo da cui illuminare la storia di Roma.Questo tipo di modello era stato trascurato, da Tucidide ricava il procedimento dell’archeologia, i discorsi direttamente attribuiti ai protagonisti, gli excursus, lo stile arduo e austero.Concezione della storia come dramma dei singoli uomini (individualistica) i protagonisti sono eroi negativi. Il modello storiografico tucidideo viene mescolato a quello ellenistico (pathos, drammatizzazione eventi,variazioni tematiche, digressioni, rilievo dei ritratti) à complessità storica e narrativa. Utilizza il principio di brevitas nella scelta degli avvenimenti: sceglie solo quelli importanti e funzionali al discorso. Gli excursus tendono a culminare drammaticamente in un grande discorso o in un ritratto. Tema della virtus ormai degradata dall’insorgere di viziose passioni, rappresenta anche i rapporti umani che presiedono ai movimenti storici.

PUBLIO VIRGILIO MARONE

Vita -Virgilio Marone, Publio poeta latino (Andes odierna Pietole, Mantova, 70 a.C. – Brindisi 19 a.C.) – figlio di un proprietario terriero, non ricco, Virgilio compie i primi suoi studi fino a quindici anni  a Mantova e Cremona, dopodiché si reca, prima a Milano e poi a Roma e a Napoli interessandosi  anche di astronomia, botanica, zoologia, medicina e matematica. Un fatto grave accade al poeta verso l’età di ventotto anni: perde temporaneamente i propri in conseguenza della distribuzione di terre italiche ai reduci dei Filippi, ma grazie all’intervento di Asinio Pollione, governatore della Cisalpina, riesce a riavere i suoi campi paterni. Tra il 34 e il 37 entra a far parte del circolo Mecenate. All’età di cinquantadue anni dopo undici anni di lavoro per la stesura dell’Eneide, non contento della esito finale del poema , parte per la Grecia e l’Asia Minore, dove intende studiare meglio i luoghi in cui è ambientato la prima parte del suo poema, ma improvvisamente a Megara, dopo una passeggiata sotto il suole infuocato, si ammala ed è costretto a tornare in Italia dove muore. Una leggenda vuole che il poeta nel letto di morte, a Brindisi, chiese il manoscritto dell’Eneide per distruggerlo.
Opere:
Bucoliche: opera di poesia composta in tre anni dal 42 al 39 a.C. Il titolo d’insieme Bucolica, “canti dei bovari”, rievoca uno sfondo pastorale dove i pastori sono attori e creatori di poesia
I. Omaggio ad Ottaviano: dialogo fra due pastori, Titiro e Melibeo, oggetto di opposti destini: il primo, beneficato a Roma da un giovane divino (Ottaviano), godrà la sua vita tranquilla; il secondo vagherà lontano, privato dei suoi possedimenti.
IV. Canto celebrativo per la nascita di un fanciullo, che vedrà l’avvento di una nuova “età dell’oro”. (nel medioevo fu interpretata come profezia dell’avvento di Cristo).Georgiche: poema in quattro canti scritto tra il 37 e il 3o a.C. Il primo libro tratta della coltivazione della terra, si iscrive idealmente nel giro delle stagioni durante l’anno, dalla primavera all’inverno. Il secondo libro è il canto della vigna e del dio Bacco, della vitalità misteriosa della natura. Il terzo libro tratta dell’allevamento del bestiame, con commossa partecipazione per l’”umano” esistente in queste creature Nel quarto libro sono cantate le api (sappiamo che il padre di Virgilio era un appassionato apicoltore).
Eneide: poema in dodici canti, i primi sei che riguardano il viaggio di Enea da Troia al Lazio (ispirati dall’Odissea di Omero) e gli ultimi sei che trattano delle battagli di Enea nel Lazio prima di stabilirsi definitivamente (questi canti sono ispirati all’Iliade).L’Eneide è perciò un’opera di consistente significato storico e politico, pur non essendo un poema storico. L’opera lascia il protagonista prima ancora che possa assaporare il suo trionfo e il suo futuro di eroe divinizzato è solo intravisto di scorcio. L’Eneide, è infatti una riflessione sulla storia che porterà alla nascita di Roma. Al centro dell’Eneide abbiamo la riflessione sulla storia dell’umanità, un progressivo cammino verso la realizzazione di un bene sommo: la fondazione di Roma, l’impero romano (in particolare quello di Augusto). Questa idea della storia, proviene da una scuola filosofica, lo stoicismo, una visione positiva della storia. Il destino portava alla realizzazione di cose positive. Accanto a questo tema ritroviamo il concetto di destino. L’Eneide ci mostra come il realizzarsi di quest’ultimo, porti alla morte di molti innocenti. Virgilio ci fa toccare il dolore con il quale queste persone muoiono e ci vuole suggerire un dubbio: questo destino è crudele. Pone anche un interrogativo a cui però non sa dare risposta: qual è la motivazione del dolore dei singoli? E soprattutto c’è un senso? Virgilio si limita solo a mostrare che ci sono cose che non tornano nello stoicismo e lascia aperto questo grande interrogativo, facendo riflettere il lettore sul senso della vita.

Nel VI libro Enea scende agli Inferi (passaggio che ispirò Dante Alighieri) e incontra diverse ombre tra le quali quella del padre Anchise che gli mostra le immagini dei suoi illustri successori, in particolare quelli  che scriveranno la storia di Roma: Romolo, Giulio  Cesare, Augusto…
L’Eneide è un poema in cui, nonostante l’esaltazione della missione civilizzatrice di Roma e dei suoi eroi guerrieri si esprime solidarietà e comprensione nei confronti dei vinti, vittime di un destino avverso e costretti a sacrificare i loro progetti e i loro sentimenti per obbedire al volere inflessibile del Fato. Lo stesso Enea non è un eroe spietato come Achille né  ingannevole e insofferente di vincoli come Ulisse che provocò l’ira di molte divinità, egli mette il suo valore a servizio della volontà degli dei e obbedisce ai loro ordini anche quando questa obbedienza gli costa il sacrificio dei suoi sentimenti (per volere di Giove abbandona la regina Didone che pure amava inducendola al suicidio).

QUINTO ORAZIO FLACCO

Nacque a Venosa nel 65 a.C. dalla modesta famiglia di un liberto, che gli diede un’ottima istruzione anche a costo di grandi sacrifici.  O gli fu sempre riconoscente, defininendolo “optimus pater”, il migliore dei padri. Per vivere si adattò a fare il contabile, ma nel contempo cominciò a comporre versi. L’attività poetica gli procurò l’ingresso nel cenacolo degli altri scrittori e poeti dell’epoca, e gli conquistò la stima dell’entourage intellettuale di Augusto, che tendeva a legare alla politica imperiale gli intellettuali più promettenti. Come poeta ufficiale scrisse il Carme Secolare, in cui si celebravano i fasti di Roma. Fu un esponente dell’epicureismo sintetizzato nel suo “Carpe diem”, uno dei componimenti più noti delle odi o Carmina: l’uomo deve cogliere al volo le  gioie che la vita terrena gli concede, perché non vi è nè prospettiva nè certezza di una vita dopo la morte. Le sue Satire sono una bonaria presa in giro dei difetti umani: l’atteggiamento del poeta non è infatti severo e privo di comprensione come quello di altri poeti satirici, infatti egli si annovera tra coloro che talvolta sbagliano e ritiene che il suo compito sia quello di portare al ravvedimento facendo sorridere, non condannando. Un po’ più aspro è il tono degli Epodi Morì a Roma nel settembre dell’ 8 a.C. poco dopo la scomparsa del suo amico Mecenate, che egli stesso definì “la metà dell’anima sua”.

ALBIO TIBULLO

Vita. (55/48 – 19 o 18 a.C.)

Biografia incerta. Abbiamo poche e incerte notizie sulla vita di T. (anche il “praenomen” è ignoto), il poeta elegiaco che Orazio, in una sua epistola, pur ritrae bello e dotato di ogni benetroppo immerso in penosi pensieri, ridotto come un “corpo senz’anima”.

La vita in campagna. Di ceto equestre, T. nacque in territorio laziale, Vittima come tanti altri dell’ondata di confische di terre a favore dei veterani di Filippi, egli poté tuttavia conservare del suo patrimonio quel tanto che gli permise di condurre un’esistenza non più ricca come i suoi avi, ma certamente agiata.L’incontro con Messalla. Il fatto più importante della sua vita “pubblica” fu l’incontro con Messalla Corvino, uomo politico romano (64 a. C.-8 d. C.). aristocratico repubblicano e partigiano di Bruto e Cassio, che combatté per loro a Filippi, ma passò in seguito a Ottaviano. A lui.fu sempre legato da intensa amicizia e fu il principale rappresentante del suo circolo letterario a Roma.: Pur avversando la vita militare, T. accettò di accompagnarlo addirittura in due spedizioni militari, una in Oriente, nel corso della quale dovette fermarsi, ammalato, a Corcira (Corfù); l’altra in Aquitania, ove si distinse per meriti militari (e in un’elegia, canterà proprio il trionfo di Messalla, celebrato nel 27).

Opera.

Corpus Tibullianum I codici ci hanno trasmesso, sotto il nome di T., 3 libri di elegie, comunemente noti come “Corpus Tibullianum vi si canta sopra tutto l’amore per una donna, Delia, e per un’altra donna, chiamata con uno pseudonimo, Nemesi: come una “Vendetta” per i tradimenti di Delia. Di un altro nome di donna fa cenno Orazio: una certa Glicera, “crudele” perchè venuta meno al patto d’amore col poeta.L’amore per Tibullo è fonte di tormento e sofferenza, più che di gioia.

Il Corpus contiene anche altri temi, come la lode di Messala Corvino, l’esaltazione della vita in campagna  e anche  considerazioni filosofiche.

TITO LIVIO

Nacque a Padova nel 59 a.C.; probabilmente da famiglia agiata perché potè dedicare interamente la sua vita alla stesura della sua opera storica “Ab Urbe còndita”, nè risulta che ricevesse sovvenzioni da Augusto o da Mecenate. Iniziò a scrivere intorno al 26 a.C., ed è il primo storico romano non impegnato in politica. Era in rapporti amichevoli con l’imperatore, ma solo dopo la morte di lui pubblicò l’ultima parte della sua opera, temendo la disapprovazione morale e politica del Principe. Morì nel 17 d.C. a Padova, all’età di 76 anni.

Sua la monumentale opera storica “Ab urbe còndita”  – Dalla fondazione di Roma –  che abbraccia il lungo periodo dall’approdo di Enea sulle rive del Lazio (non dimentichiamo che i Romani si ritenevano discendenti dei Troiani per mezzo di Enea, e della dea Venere che ne era la madre), fino alla Terza Guerra di Macedonia (167 a.C.), considerando l’ultimo libro delle storie liviane (il 45° su 142) giunto intero sino a noi.

Opera grandiosa, questa di Livio, non immune tuttavia dai difetti e dai limiti di una storiografia più attenta alla forma letteraria che non al rigore scientifico, come invece lo è quella moderna. La storia di  Tito Livio è protesa soprattutto al valore stilistico, si preoccupa di una armonica connessione delle sue varie parti e della perfezione formale; solo in un secondo piano pone la coscienziosa scientificità dei fatti narrati, ne analizza e ne discute le fonti. D’altra parte dobbiamo considerare quanto scarse, leggendarie e incontrollabili fossero queste fonti stesse, dal momento che gli eventi primi di cui Livio si occupa risalgono, diremmo, alla notte dei tempi, alle prime gesta epiche dei leggendari eroi scampati alla guerra di Troia.

>> Inoltre, un secondo motivo spinge il nostro Livio ad una inconsapevole deformazione degli avvenimenti: il profondo patriottismo che pervadeva l’intimo di ogni civis romanus , l’entusiasmo e la venerazione quasi religiosa per la “dea Roma”, esaltata nella sua missione e nella grandezza dei suoi destini.

Opera di celebrazione, quindi, e allo stesso tempo con un dichiarato  messaggio: il dominio romano nel mondo si è potuto avverare attraverso quella concordia che ha unificato popoli diversi sotto un’unica ègida; e finché ciò durerà, finché gli spiriti saranno uniti in quel monolitico insieme che è l’impero di Roma, questo insieme medesimo non dovrà aver timore alcuno, perché i suoi eserciti che sconfissero la potenza cartaginese lo difenderanno da qualunque assalitore. E il suo dominio non avrà mai fine.  (così credeva)

LUCIO ANNEO SENECA
Si veda il fascicolo specifico

Publio (o Gaio) Cornelio Tacito

conosciuto semplicemente come Tacito (55117) è stato un importante storico latino. Nacque nel 55 DC, probabilmente nella Gallia Narbonese, da una famiglia forse di condizione equestre. Studiò a Roma, e sposò la figlia di Gneo Giulio Agricola, autorevole statista e comandante militare. Anche grazie all’aiuto di quest’ultimo, iniziò la carriera politica sotto Vespasiano e la proseguì sotto Tito e Domiziano. Fu per qualche anno lontano da Roma, per un incarico in Gallia o in Germania. Sotto il regno di Nerva, fu consul suffectus. sotto il principato di Traiano, sostenne, insieme all’amico Plinio il Giovane, l’accusa dei provinciali d’Africa contro l’ex governatore Mario Prisco, accusato di corruzione.Il processo si concluse nel 100, con la condanna di Prisco all’esilio. In seguito, Tacito fu proconsole in Asia. Morì nel 117. Verso gli inizi del regno di Traiano (98), Tacito approfittò della diffusa atmosfera di libertà dopo la tirannide di Domiziano, per pubblicare il suo primo opuscolo storico, in ricordo del suocero Giulio Agricola, principale artefice della conquista di gran parte della Britannia sotto il regno di Domiziano, e leale funzionario imperiale. Per il tono encomiastico l’ Agricola si richiama in parte allo stile delle laudationes funebri: rapido riepilogo della carriera del protagonista prima dell’incarico in Britannia, conquista dell’isola, digressioni geografiche ed etnografiche, che derivano da appunti e ricordi di Agricola, ma anche dai Commentari di Cesare. Nell’elogiare il carattere del suocero, Tacito mette in rilievo come egli, governatore della Britannia e capo di un esercito in guerra, avesse saputo servire lo stato con fedeltà, onestà e competenza anche sotto un pessimo principe come Domiziano (le critiche a quest’ultimo e al suo regime di spionaggio e di repressione sono più volte presenti). Agricola, restando incorrotto tra la generale corruzione, cadde in disgrazia presso Domiziano e morì, senza cercare la gloria di un martirio ostentato, come il suicidio degli stoici che Tacito condanna in quanto di nessuna utilità allo stato. Sulle reali cause della morte, naturale o voluta da Domiziano, Tacito tace, ma allude al fatto che a Roma si mormorava che Agricola era stato avvelenato per ordine dell’imperatore.
L’interesse per gli usi e i costumi dei “barbari”, sono al centro della Germania,  l’unica testimonianza superstite della letteratura etnografica, genere di grande successo a Roma  nato coll De bello Gallico di Cesare, il quale aveva descritto il sistema di vita dei Germani e dei Galli. Le notizie etnografiche contenute nella Germania derivano da fonti scritte, probabilmente dai Bella Germaniae di Plinio il Vecchio, che aveva preso parte a spedizioni nelle terre dei Germani.La Germania contrappone la civiltà dei barbari, ingenua e primordiale, ma ricca di energia e non ancora corrotta dai vizi alla civiltà decadente dei Romani. Insistendo sulla forza e sul valore guerriero dei Germani, Tacito ha probabilmente inteso sottolineare la loro pericolosità per l’Impero. Egli mostra inoltre un particolare interesse per la frontiera, il limes, con i Germani sia perché è convinto della pericolosità delle popolazioni settentrionali, sia perché in quella direzione vi sono maggiori possibilità di espansione per l’impero.
Altre opere: Historiae il testo contiene la narrazione degli eventi degli anni 6970, dal regno di Galba fino alla rivolta giudaica; terminate le Historiae, nei suoi Annales intraprese il racconto della storia del principato dalla morte di Augusto (14 DC) a quella di Nerone (68 DC). Negli Annales, Tacito mantiene la tesi della necessità del principato; ma mentre ribadisce che Augusto ha garantito la pace all’Impero dopo lunghi anni di guerre civili, lo storico conferisce un’atmosfera tetra alla vita sotto i Cesari. La storia del principato è anche la storia del tramonto della libertà politica dell’aristocrazia senatoria decaduta moralmente, corrotta e servile nei confronti del principe.

Nel primo libro delle Historiae, un discorso fatto pronunciare a Galba chiarisce la posizione ideologica e politica di Tacito. Il rigoroso rispetto che Galba aveva per la formalità e la sua mancanza di realismo politico lo avevano reso incapace di controllare gli eventi: al contrario, Nerva adottò Traiano, che fu capace di tenere unite le legioni, mantenere l’esercito fuori dalle attività politiche imperiali, e di porre fine al disordine tra le legioni, evitando di fatto l’ascesa di eventuali pretendenti al trono. Tacitus era convinto che solamente il principatus potesse assicurarsi la fedeltà dell’esercito, garantire la coesione dell’impero e la pace.

Descrivendo l’ascesa al potere di Ottaviano, Tacito dice che, dopo la battaglia di Azio, era necessario l’accentramento del potere nelle mani di un principe per il mantenimento della pace. Il principe non avrebbe dovuto essere un tiranno, come Domiziano, né un folle, come Galba. Avrebbe dovuto essere capace di garantire sicurezza all’imperium, preservando al contempo il prestigio e la dignità del Senato (Seneca sostiene lo stesso punto). Tacito, senza farsi illusioni, considera il potere degli imperatori adottivi l’unica soluzione ai problemi dell’impero (http://it.wikipedia.org/wiki/Historiae_(Tacito)

L’operetta etnografica di Tacito, la Germania, come le citate pagine di Cesare, è ricavata da fonti prevalentemente scritte (e anche un po’ datate: ad esempio i Bella Germaniae di Plinio il Vecchio [10] ) è strutturata secondo la partizione “a cipolla” del mondo: alla descrizione della civiltà germanica seguono due capitoli conclusivi (45-46) sul “Mare Pigro” e sui popoli favolosi delle estreme frontiere. L’accento insiste soprattutto sulla povertà, onestà e semplicità di costumi dei Germani (in particolare nei capp. 5 e 17-20), e viene inoltre sviluppato il cenno di Cesare al loro isolamento geografico nel senso di una purezza anche razziale (cap. 4). La loro pericolosità per lo stato romano è comunque più volte ribadita”.

All’idealizzazione dei Germani si contrappone l’altra faccia dell’atteggiamento romano verso i popoli assoggettati: il profondo disprezzo verso i Giudei, con cui erano per lo più confusi i Cristiani. Se l’alterità dei Germani può ricordare come erano i Romani prima della “civilizzazione”, e quindi essere guardata perfino con simpatia, quella ebrea è un’alterità totale e inaccettabile, perché non consente assimilazione: in Historiae 5,2-10, i Giudei sono definiti “genus hominum ut invisum deis”, dedito a “novos ritus contrarios ceteris mortalibus”, come  e per di più “profana illic omnia quae apud nos sacra, rursum concessa apud illos quae  nobis incesta”; divisi dal resto del mondo dal loro hostile odium [11] , non possono che essere stigmatizzati come mos absurdus surdidusque.

San Girolamo
(in latino Hieronymus),
(Stridone Dalmazia 347, Betlemme settembre 420), traduttore della Bibbia dal greco e dall’ebraico al latino.

Da giovane visse  a Roma, viaggiò in oriente dove studiò il greco e fu ordinato sacerdote. Dopo tre anni di vita monastica tornò a Roma dove divenne segretario di Papa Damaso I e conseguì un notevole successo personale, ma alla morte del Papa tornò in oriente, dove fondò alcuni conventi femminili e maschili, in uno di questi trascorse gli ultimi anni. Morì nel 420.

L’edizione di San Girolamo, la Vulgata, è ancor oggi il testo biblico ufficiale a cui fa riferimento la Chiesa Cattolica Romana.

Quando cominciò la sua opera di traduzione non aveva una perfetta conoscenza dell’ebraico, perciò si trasferì a Betlemme per perfezionare la sua conoscenza della lingua.Iniziò la traduzione nel 382 su incarico di Papa Damaso I, correggendo la versione latina esistente del Nuovo Testamento, soltanto nel 390 passò all’Antico Testamento in ebraico e concluse la sua opera nell’anno 405, dopo ben 23 anni.

Aurelio Ambrogio,

membro di due importanti famiglie senatorie romane), nacque nel 339 a Treviri (Germania), dove il padre era prefetto del pretorio per la Gallia, ed essendo destinato alla carriera amministrativa, frequentò le migliori scuole di Roma. Dpo cinque anni di magistratura a Sirmio (oggi Belgrado) fu inviato a Milano come governatore dell’Italia settentrionale, alla morte del vescovo ariano di Milano, per evitare scontri tra ariani** ed ortodossi, Ambrogio fu proposto alla nomina di vescovo anche se non aveva ancora ricevuto il battesimo. Nel giro di una settimana fu battezzato e nominato vescovo.

Sant’Ambrogio influenzò la politica religiosa di Teodosio, Nel 380 con l’editto di Tessalonica il cristianesimo fu proclamato religione ufficiale dello stato. Nel 381 il concilio di Aquileia si pronunciò contro l’arianesimo e nel 391 Teodosio proibì i culti pagani.  (Arianesimo = movimento cristiano fondato dal prete Ario di Alessandria nel IV sec. Egli negava la natura divina di Gesù, pur credendolo figlio di Dio; venne dichiarato eretico ma il suo pensiero si diffuse presso le popolazioni germaniche, determinando contrasti con gli abitanti latini dell’impero, cattolici) Particolarmente forte fu il suo antigiudaismo: scrive nell’Expositio Evangelii secundum Lucam a proposito del popolo giudaico che è «… perduto, spirito immondo, preda del diavolo anche all’interno del suo tempio sacro, la sinagoga: anzi la stessa sinagoga è ormai sede e ricettacolo del demonio che stringe entro spire serpentine tutto il popolo giudaico». L’antigiudaismo di Sant’Ambrogio è frutto della situazione dell’epoca, nella quale i rapporti tra cristiani ed ebrei erano  molto tesi. Ambrogio si oppose anche ai tentativi di interferenza dell’imperatore nelle decisioni dottrinali della Chiesa, arrivando a teorizzare al contrario che, essendo cristiano, avrebbe comunque dovuto obbedire al papa anche nelle sue scelte politiche.

Origene

Ncque verso il 185 probabilmente ad Alessandria . La persecuzione del 202 portò il padre al martirio e causò la miseria della famiglia . Origene si dedicò all’ insegnamento . Fautore di una vita ascetica , interpretando alla lettera un passo evangelico su quanti si fanno eunuchi per amore di Dio Origene si evirò. Nel 203 fu ordinato sacerdote , ma il vescovo Demetrio, ritenendo illegittima la sua ordinazione a causa

dell’ autoevirazione, lo fece dichiarare deposto . Origene si stabilì allora a Cesarea , in Palestrina , ove fondò una scuola simile a quella di Alessandria e costituì una ricca biblioteca . Durante la persecuzione dell’ imperatore Decio fu probabilmente incarcerato e torturato; morì nel 253. Origene fu scrittore infaticabile, autore di numerosissime opere , soltanto in piccola parte giunte fino a noi , anche per la condanna di eresia comminata successivamente ad alcune proposizioni enunciate in esse. Ricevette sin da giovane un’ educazione cristiana , ma a questa egli accompagnò anche lo studio dei filosofi antichi . La filosofia pagana é agli occhi di Origene un insieme di sette che si escludono mutuamente e perciò richiedono
un’ adesione totale
: ogni scuola , una volta catturato un individuo , lo imprigiona come in una palude o in una foresta senza vie d’ uscita , escludendo ogni forma di conversione ad un’ altra di esse . L’ unico criterio in base a cui una filosofia viene scelta rispetto ad un’ altra é il caso , che ha fatto imbattere in essa per prima . Per evitare di rimanere imprigionati in un solo indirizzo, Origene richiede dunque la lettura di tutti i filosofi , senza obbligare a un assenso o a un rifiuto immediato . Questi diventano possibili nel momento in cui entra in azione il criterio , posseduto dai cristiani , ma non dai filosofi , della verità proveniente da Dio e rivelata nelle Scritture . Scelta e rifiuto non sono dunque globali , ma sono compiuti rispetto a singole dottrine , in base alla loro compatibilità con il messaggio cristiano . Il risultato é la disarticolazione della compattezza dei corpi dottrinali delle filosofie , mentre il compito di utilizzarne i resti passa nelle mani del dotto cristiano , che può servirsi di esse e del loro vocabolario concettuale per interpretare le stesse Sacre Scritture .  Secondo Origene la salvezza non é riservata a pochi: ciò stabilisce una netta differenza rispetto alle filosofie, molte delle quali erano destinate a rimanere il patrimonio di un’élite . La fede razionale é agli occhi di Origene superiore alla fede dei semplici , che é meno salda e può dipendere dal timore piuttosto che dall’ amore di Dio , e in più non mira alla conoscenza dei misteri divini. In questo senso é compito specifico  del filosofo cristiano

l’interpretazione delle Scritture: così l’ indagine filosofica di Origene assume la forma dell’ esegesi e del riferimento costante ai testi biblici ed evangelici. Egli è infatti crede che essi ammettano una pluralità di sensi : come nell’ uomo , oltre al corpo , esistono l’ anima e il pneuma o spirito , così nel testo sacro , al di sotto del senso letterale o somatico , esistono un senso morale o psichico e uno allegorico – mistico o pneumatico . In particolare , l’ Antico Testamento é per Origene una prefigurazione del Nuovo Testamento. A noi é possibile conoscere per via mediata la natura divina , in quanto il Dio-Padre genera nell’ eternità il Figlio o Logos  , che ha la stessa natura del Padre , benchè gli sia subordinato . Questo ” secondo Dio “conosce il Padre ed é fonte di conoscenza per gli altri esseri : il Logos é infatti mediatore tra Dio e il mondo , in quanto pare contenere le idee e cioè i modelli di tutte le cose create . Dal Logos , poi , procede lo Spirito Santo e tutto riceve il soffio vitale o pneuma . Secondo Origene la potenza di Dio non é illimitata , perchè se fosse tale , essa non potrebbe neppure pensare se stessa . Dio , pertanto , crea tanti esseri quanti può contenere e raccogliere sotto la sua provvidenza e prepara tanta materia quanta ne può ordinare . Solo la sua bontà , infatti , lo spinge a creare , perciò Origene considera eterna la creazione , perchè la bontà di Dio non può restare inattiva . La tesi dell’ eternità della creazione presenta affinità con l’ impostazione del platonismo contemporaneo , ma contrasta col racconto biblico della creazione e per questo attrasse su Origene l’ accusa di eresia . Il mondo attuale secondo Origene é conseguenza di altri mondi precedenti , così come altri successivi saranno conseguenza di esso . Entro questo processo eterno si inscrive la storia delle anime : all’ inizio esse furono create come intelletti puri , ma non tutte conservarono la perfezione iniziale e per orgoglio di autoaffermazione , ribellandosi a Dio , caddero nel peccato. Il peccato consiste in una sorta di ” raffreddamento nell’ amore ” per il Bene , causato da un atto di libera volontà  Le anime umane , pur risiedendo in un corpo , conservano la partecipazione al Logos divino e il libero arbitrio , che consente loro di scegliere il bene e ritornare alla condizione primitiva . Anche i demoni , che rappresentano il gradino più basso nella caduta e nell’ allontanamento da Dio prodotti dal peccato, hanno questa possibilità . La redenzione , ossia la liberazione dal peccato , coinvolge tutti gli esseri , non solo l’ uomo : nessuno , neppure il diavolo , può esserne escluso , altrimenti la redenzione non sarebbe completa . Alla fine dunque tutti gli esseri saranno salvati : in ciò consiste quella che Origene chiama apocatastasi , ossia letteralmente ” ristabilimento ” della condizione originaria di perfezione in Dio . Essa tuttavia non é la conclusione ultima e definitiva , perchè dopo di essa ricomincerà la vicenda eterna , anche se non totalmente identica alle precedenti , come avevano preteso gli stoici , in quanto il libero arbitrio dei singoli , per definizione variabile , continua a essere fattore decisivo . In tal modo Origene innesta , sul fondo delle dottrine cristiane della trinità , della creazione e della redenzione , tematiche proprie della tradizione filosofica : in particolare  quella neo – platonica e quella stoica dei cicli successivi dell’ universo (apocatastasi, cfr.sotto) . Anche quest’ ultimo punto incappò nell’ accusa di eresia , così come pure l’ affermazione di una resurrezione puramente spirituale , che non avrebbe coinvolto il corpo . Anche per questo aspetto di svalutazione del corpo la tesi di Origine presenta forti risonanze platoniche .

Apocatàstasi. Il termine deriva dal verbo greco apokathìstemi, “io ristabilisco”. L’apocatastasi è la visione cosmologica della realtà che considera il cosmo come un sistema che distrugge e poi ristabilisce un ordine necessario e sotteso agli eventi, è un termine ripreso dalla filosofia stoica.
Il mondo, secondo gli stoici, era un susseguirsi di ecpirosi (distruzioni) e di palingenesi (riedificazioni) dello stesso cosmo. La ragione che governa ogni cosa, destabilizzata dal principio distruttore rappresentato dal fuoco, non può che riordinare e riedificare il mondo distrutto sempre nella stessa e medesima forma, poiché la ragione presuppone una perfezione logica sempre identica a se stessa. Questo ciclo di mondi “reiterati” è appunto l’apocatastasi (il tempo ha un andamento ciclico, tutti gli eventi sono destinati a ritornare uguali a se stessi).

Clemente Alessandrino

La figura di Clemente Alessandrino é significativa di un importante mutamento nei rapporti tra cristianesimo e filosofia , già avvenuto verso la fine del secondo secolo : l’ istituzione di una scuola cristiana e l’ integrazione della filosofia nel curriculum didattico di essa . Clemente nacque forse ad Atene verso il 150 . Divenuto cristiano , compì viaggi in Italia meridionale , in Siria e il Palestina . Ad Alessandria subì la persecuzione di Settimio Severo  che nel 202 lo costrinse ad abbandonare la città e a recarsi a Cesarea in Cappadocia , dove morì prima del 215 . Oltre all’ omelia ” Quale ricco si può salvare ” , ci sono stati conservati tre scritti di Clemente : ” il protrettico ai Greci ” , nel quale i pagani sono esortati a convertirsi , data la superiorità del cristianesimo ; ” Il pedagogo ” in tre libri , dove il Cristo , unico vero maestro , impartisce al pagano convertito i precetti della vita cristiana anche nei suoi aspetti più quotidiani ; ” Gli stromata ” ( letteralmente Tappeti , ossia tessuti intrecciati di svariati discorsi ) , in 8 libri , nei quali Clemente intende dimostrare la superiorità della gnosi cristiana rispetto a ogni altra forma di conoscenza , in particolare quella filosofica .

Nell’ ambito del Cristianesimo vi fu anche chi rifiutò radicalmente la filosofia, anche se, come aveva insegnato Aristotele, anche per rifiutare la filosofia si deve comunque fare un ragionamento filosofico; il rappresentante più significativo in questa direzione é Quinto Settimio Fiorente Tertulliano.
Nato a Cartagine tra il 150 e il 160 da genitori pagani, dotato di ampia cultura retorica e giuridica, esercitò forse l’avvocatura in Roma. Verso il 195 si convertì al cristianesimo, tornò in Africa, ove compose numerosi scritti in lingua latina in difesa della Chiesa contro pagani ed eretici. Fu anche prete, e le sue posizioni religiose si dimostrarono molto rigorose, tanto che nel 213 finì con l’aderire ad una delle sette più note per l’intransigenza e il fanatismo, quella dei Montanisti, che in vecchiaia abbandonò per dar vita ad un nuovo gruppo, quello dei “Tertullianisti”. Di Tertulliano ci sono pervenuti circa quaranta scritti, tra i quali sono particolarmente importanti l’ Ad nationes , contro i pagani , l’ Apologetico e il De praescriptione haereticorum , di poco successivo . Come abbiamo detto, verso il 207 aderì al montanismo, eresia introdotta da Montano, fondata sulla credenza nella fine imminente del mondo e sulla necessità di prepararsi ad essa con rigoroso ascetismo. Con vari scritti, Tertulliano intervenne anche su questioni etiche , come l’immoralità dell’assistere agli spettacoli teatrali e circensi o delle acconciature femminili. Morì a Cartagine dopo il 220. Profondamente intriso di cultura classica, anche filosofica e medica, Tertulliano attinge anch’egli a dottrine filosofiche. Esempio significativo di questo atteggiamento é dato dal suo scritto Sull’ anima , dove egli si fa sostenitore di una forma di materialismo. Riallacciandosi allo stoicismo, egli sostiene che tutto ciò che esiste é corpo e , dunque , é corpo anche l’ anima .

AGOSTINO DI IPPONA

Aurelio Agostino nacque a Tagaste, sul territorio dell’odierna Algeria, nel 354. Compì gli studi presso Madaura, poi a Tagaste e Cartagine, come autodidatta si interessò alla lettura dei classici (la lettura dell’Ortensio di Cicerone produsse in lui l’amore per la filosofia).Dopo la morte del padre aprì una scuola di retorica a Tagaste (373), poi insegnò a Cartagine (374-383), quindi, insoddisfatto, decise di trasferirsi a Roma. A Milano, dove infine si stabilì, ottenne la cattedra municipale di retorica. Agostino, pur avendo ricevuto dalla madre Monica  un’educazione cristiana, non aderì da subito alla religione cattolica, nutriva infatti molti dubbi sulla sua validità (in particolare lo ripugnava lo stile della Bibbia e aveva una concezione tendenzialmente materialista della realtà). Agostino, nel primo periodo della sua vita, aderì al manicheismo, eresia che abbandonerà dopo l’incontro con il vescovo manicheo Fausto, il quale sorprese negativamente Agostino a motivo della sua ignoranza.

A Milano incontrò Sant’Ambrogio: negli anni che vanno dal 384 al 387 maturò la sua conversione al cristianesimo. Sant’Ambrogio lo battezzò a Milano, dopo un periodo di ritiro a Cassiciacum, oggi Cassago Brianza. Deciso il ritorno in Africa, fu sorpreso dall’improvvisa morte della madre, ad Ostia, due anni dopo morì anche il figlio. Nel 391 venne ordinato sacerdote della chiesa cristiana, nel 396 divenne vescovo di Ippona (l’attuale Bona). Da questo momento si dedicherà agli scritti di natura religiosa e alla lotta contro le eresie. A motivo del suo percorso esistenziale controverso e travagliato, Agostino incarna la figura emblematica dell’uomo che approda con sofferenza e a tappe forzate di maturazione alla vita religiosa, dopo un’esistenza condotta nel peccato.

Le opere di Sant’Agostino sono più di trecento. Le più importanti sono: La Trinità (pietra miliare della teologia) del 419, Le Confessioni(la sua biografia) del 397, La città di Dio e numerosi scritti contro le eresie. Nelle “Confessiones” l’autore racconta gli anni della sua vita fino alla conversione al cristianesimo e alla nomina a vescovo di Ippona, carica che ricopre a partire dal 395; negli ultimi 4 svolge una serie di considerazioni sull’essenza del tempo, sul ruolo di questo nella vita dell’uomo, e sulla sua origine (risalente alla Creazione), commentando i relativi passi della Genesi. L’opera è scritta come un lungo discorso che Sant’Agostino rivolge a  Dio, fitto di reminiscenze bibliche, svelando i tre sensi del titolo Confessioni”:il primo (e più ovvio) come quello di anima che “confessa” i suoi peccati; Il secondo come quello di anima che “confessa”, cioè, in un certo senso, ammette a ragion veduta (e, di conseguenza, loda) la grandezza di Dio; Il terzo come quello di anima che spiega sinceramente le ragioni della propria fede. Naturalmente fra i motivi della nascita delle Confessioni va considerata anche la necessità, in un periodo difficile per il cristianesimo, di controbattere ad alcune eresie (aranesimo vedi sopra; manicheismo = pensiero del profeta Mani vissuto in Mesopotamia nel III sec. d. C.; influenzò alcune correnti del cristianesimo ma venne completamente sradicato in Occidente. Ebbe maggior fortuna in Oriente. Si fonda su una rigida divisione tra bene e male, presentato come un vero e proprio epico combattimento.) e di risolvere questioni inerenti alla fede sollevate dalle recenti persecuzioni in alcune zone del Mediterraneo. Ma sarebbe limitativo considerare l’opera come semplice rappresentante del filone apologetico, dottrinale o anti-eretico.L’opera, grazie a questa forte concentrazione sull’io dell’autore, svela una sua sorprendente modernità, non solo nel senso di “attualità”: pur non essendo la prosa dell’interiorità una novità assoluta nell’ambito delle letterature classiche, è assolutamente nuova la forza dell’ispirazione e soprattutto il fatto che l’autore narri diffusamente e, almeno per quel che ne sappiamo, in modo totalmente sincero della propria vita, facendo di essa il vero fulcro dell’opera; tanto che, tra i tanti generi letterari presenti in diversa misura nelle Confessioni (tra cui appunto quello dottrinale), quello più evidente e universalmente noto è proprio il loro essere “autobiografia“. Un altro elemento di modernità è rappresentato dal fatto che la dimensione autobiografica principale sia quella interiore, dell’anima; inoltre, gli avvenimenti esteriori, pur non assenti, sono rivissuti con l’atteggiamento severo del peccatore pentito: si vedano gli episodi del furto di pere (II, 9-18), dell’adolescenza e dei primi segni della pubertà, dell’attrazione irresistibile per il sesso femminile, del figlio illegittimo avuto da una concubina. Difficilmente le opere biografiche o autobiografiche dell’antichità si erano permesse una tale a-storicità e un tale ripiegamento introspettivo. La fortuna delle Confessioni fu grandissima, in quest’opera infatti raggiunge una sintesi di fede, arte e cultura che nei secoli ispirerà, tra gli altri, artisti e letterati come Francesco Petrarca (Il Secretum).

Con La città di Dio Agostino tratta organicamente e per la prima volta un tema assai importante, il tema del significato della storia degli uomini. Per gli antichi, come si è visto, il tempo era una successione ciclica di eventi, per cui a momenti favorevoli dovevano seguire, per una legge di giustizia e compensazione, momenti sfavorevoli. Agostino ribadisce invece la linearità di un tempo che non torna indietro ma che tende a un fine, quello della realizzazione di una società terrena improntata allo spirito cristiano. L’impero romano stava sì dunque crollando, ma tale crollo non significava la fine della civiltà, stava solo ponendo le basi di una società più giusta e migliore di quella romana, la civiltà cristiana. La storia, dunque, tendeva comunque a un lento e inesorabile miglioramento, a un fine.Agostino afferma che esistono due forze contrastanti che agiscono nella storia, una lotta tra due regni: la città terrena e la città celeste. La città terrena è la città di Satana, corrisponde alla materia, al corpo, alle passioni terrene, la citta celeste è invece la città di Dio, la comunità dei giusti, promotori del bene. Tali città non sono da considerarsi come entità concrete, esse sono condizioni dello spirito umano, per cui la città terrena interpreta i bisogni impuri del corpo, i suoi istinti peggiori, essendo gli uomini votati al peccato e alla caducità delle cose materiali, mentre la città celeste interpreta i bisogni dell’anima votata al bene ed è la condizione degli uomini che vivono nella Grazia divina. Tuttavia non vi sono periodi della storia umana che hanno visto la vittoria definitiva di uno o dell’altro regno, la storia umana è lotta perenne di queste due tendenze che continuamente si fronteggiano.

Entro questa visione, l’impero romano rappresenta solo un episodio del piano divino che tende alla realizzazione della società cristiana: la pax romana e la confluenza delle lingue dell’Europa nel latino, hanno permesso al cristianesimo di creare le condizioni necessarie alla diffusione del suo messaggio di pace.

La città di Dio ribadisce la superiorità delle istituzioni religiose su quelle civili, un cambio epocale e politico su cui si fonderà il Medioevo, percorso dal lungo conflitto tra potere temporale e potere spirituale. Secondo Agostino, alla società cristiana spetta dunque il compito di realizzare in terra la città celeste, il regno dei giusti, una delle tappe di avvicinamento alla Salvezza.

PENSIERO E OPERE

Sant’ Agostino, tra i massimi esponenti della patristica cristiana, fu autore molto prolifico, la sua opera da un lato è rivolta all’approfondimento delle tematiche della fede, dall’altro alla difesa del significato originario del Cristianesimo, minacciato dalle eresie, ma furono da lui trattati anche altri temi importanti quali il concetto del tempo, i problemi etici connessi all’esistenza del male e alla sua presenza nella storia.

Si può riscontrare in Sant’Agostino una radice neoplatonica, laddove ammette l’inconoscibilità di Dio per via puramente razionale e si concentra sull’introspezione dell’anima, intesa come sede ultima e privilegiata per accedere alla comprensione del sacro. (Si vedano le Confessioni)  Certamente il suo pensiero si distingue da quello di San Tommaso, che quasi un millennio più tardi fonderà il suo sistema filosofico sulla radice aristotelica, meno mistica e più logica, incentrata sull’alleanza tra fede e ragione.

1. L‘esistenza di Dio

Nel Soliloquia, un operetta composta nel 387, Sant’Agostino immagina un dialogo ideale tra lui e la ragione: Agostino desidera conoscere Dio e l’anima, la ragione dovrà dargli una risposta.

L’ atto mentale per cui ci si può avvicinare a Dio è un atto di puro intelletto. Fede, speranza e amore  sono le tre condizioni per cui un’anima si può dire guarita dalla malattia terrena, per cui la verità sembra essere confinata entro i limiti delle cose mortali: solo se sono presenti la fede, la speranza e l’amore l’anima può realmente dirsi in grado di riconoscere Dio una volta mostratosi.

2. La creazione del tempo

Uno dei temi più celebri della teologia agostiniana è legato al concetto del tempo. Agostino cerca di rispondere a questa domanda: se Dio ha creato il mondo, cosa faceva prima della creazione? E che cos’è in realtà il tempo? Sant’Agostino dapprima rispose con la celebre battuta: “Dio stava preparando l’Inferno per le persone che vogliono indagare cose troppo profonde“. Successivamente afferma che Dio, prima della creazione, non faceva nulla, perché se così non fosse stato avrebbe di certo creato qualcosa, ovvero il mondo. In particolare Dio creò con il mondo anche il tempo. Con questo si afferma quindi il necessario legame che esiste tra le cose presenti nello spazio e il tempo stesso, per cui il tempo trova significato solamente rispecchiandosi nella materia, e viceversa. Spazio e tempo sono quindi indubbiamente correlati tra loro.

Ma cos’è, dunque, il tempo? Il tempo percepito dagli uomini è un eterno presente, ovvero, se si può affermare che il presente esiste indubbiamente, non così per il passato e per il futuro, i quali non sono altro che proiezioni dell’animo umano. L’uomo infatti vive il passato come ricordo e il futuro come anticipazione, mentre il presente che vive lo percepisce intuitivamente come un reale continuativo e contingente. Di conseguenza, le tre dimensioni temporali dell’uomo sono il presente del passato, il presente del presente e il presente del futuro (memoria, intuito e anticipazione).

Ma Dio quale dimensione temporale abita? Dio, essendo eterno, abita il suo eterno presente e non è soggetto ad alcuna temporalità, in quanto si trova al di là della temporalità da Egli stesso creata. In accordo con la Bibbia, Sant’Agostino formula una concezione lineare del tempo: il tempo ha avuto inizio con la Creazione e terminerà con il Giudizio Universale, gli eventi scorrono in avanti sempre nella medesima direzione e senza possibilità di ritorno al passato. Tutto ciò che accade dall’inizio del tempo fino alla sua fine è unico e irripetibile.

Con questa visione del tempo Sant’Agostino certifica metafisicamente il passaggio epocale dall’assetto temporale dell’antichità, in cui si credeva alla ciclicità del tempo (si veda l’apocatastasi stoica), alla temporalità biblica di derivazione giudaica, in cui Dio crea il tempo come una successione lineare di eventi e si riserva la possibilità di porre fine ad esso.

3. Perché esiste il male?

Un altro problema essenziale della teologia di Agostino è la giustificazione dell’esistenza del male. Infatti, posto che Dio sia il Bene, ci si chiede perché abbia permesso l’esistenza del Male. Se Dio è bontà assoluta, come ha potuto creare un mondo in cui vi è anche spazio per il male? Agostino non può che constatare il fatto che se Dio è onnipotente, sommo bene, positività, l’esistenza reale del male non potrebbe spiegarsi se non attribuendo a Dio stesso la volontà del male: in altre parole, Dio onnipotente, qualora permettesse che nell’animo umano albergasse il male come entità presente e sostanziale, sarebbe creatore del male stesso e responsabile comunque della sua mancata rimozione. Tutto questo porta Agostino a constatare che il male, in sé, non esiste. Ciò che l’uomo percepisce come male è in realtà il frutto di un allontanamento dal bene, per cui il male è constatabile solo per via negativa, ovvero come assenza del bene.

4. Il peccato

Per chiarire la meccanica del peccato, ci viene in aiuto un passo contenuto ne Le Confessioni: il celebre furto delle pere, commesso da Agostino ancora ragazzo, allorquando, assieme ai suoi compagni di giochi, andò a rubare le pere dei vicini per il solo gusto di commettere una bravata.
Agostino nota come il furto sia stato commesso non per necessità, avendo nel suo proprio giardino frutta migliore che quella del vicino, ma per il semplice gusto di trasgredire la morale. Le pere, per la maggior parte, vennero date in pasto ai porci, solo in piccola parte gustata dai ragazzi, e nemmeno con troppa soddisfazione.. Per Agostino il peccato è un’imitazione della potenza di Dio, un’imitazione impossibile, che si risolve in un tentativo maldestro di creare da sé nuove regole. Il peccato è una rivolta contro la potenza divina, ma, rivoltandosi, gli uomini non fanno altro che ribadire l’importanza e la potenza di colui a cui vogliono opporsi, ovvero, Dio.

5. L‘imperfezione dell’uomo e la Grazia per predestinazione

Come può l’uomo salvare la propria anima? “Il giusto sarà salvato per la sua fede” scriveva San Paolo nella Epistola ai Romani. Molta parte della Chiesa interpretò e interpreta tuttora questa frase nel senso che l’uomo può salvarsi e raggiungere il Paradiso grazie alle buone opere di cui si può fregiare sulla terra. Tuttavia questa visione porterebbe a un paradosso teologico: se la Salvezza dell’uomo dipendesse dalla possibilità di scegliere le opere di bene, Dio non avrebbe più alcuna possibilità di esercitare la sua potenza sugli uomini, in quanto gli uomini stessi, in ragione delle proprie scelte di vita, sarebbero padroni del proprio destino. Tutto ciò ridurrebbe Dio a semplice certificatore della Salvezza. Rispondendo all’eresia di Pelagio, che predicava la possibilità dell’uomo di salvarsi senza l’aiuto di Dio, essendo il peccato originale una colpa gravante sul solo Adamo, Agostino espone la dottrina della Predestinazione: solo Dio decide in piena autonomia chi salvare o no dalla dannazione, l’uomo non può che avere fede nella Salvezza, sapendo comunque che l’ultima parola sulla non può spettare ad altri che a Dio (la dottrina verrà poi ripresa da Lutero e dal Giansenismo).

Graziano

Graziano (il primo nome dovrebbe essere Francesco o Giovanni; Chiusi, fine XI secolo – Bologna, 1150) è stato un monaco camaldolese italiano e giurista di diritto canonico del periodo medievale, precisamente del XII secolo. Egli fu tra i fondatori della logica applicando, tra i primi, i principi espressi dall’allora controverso Sic et Non di Pietro Abelardo.

A Graziano si deve il primo tentativo di conciliare le varie e apparenti contraddizioni che scaturivano ormai copiose dalle Sacre Scritture, grazie a varie opere come il Sic et non del filosofo Abelardo. Insegnò diritto e teologia a Bologna. Dal 1139 avrebbe iniziato a costruire la sua opera, e per essa ricevette -in seguito- il titolo di magister. Morì quasi certamente tra gli anni ’50 e ’60 del 1100. Dante Alighieri lo incontrò in Paradiso, nel Cielo del Sole, dove San Tommaso d’Aquino lo indicò infatti tra gli spiriti sapienti come l’autore di un ponderoso diritto canonico. A Graziano si deve il primo tentativo di conciliare le varie e apparenti contraddizioni che scaturivano dalle Sacre Scritture. Rifacendosi ad autori quali il filosofo Abelardo (XI-XII sec. filosofo, maestro a Parigi, si fece monaco dopo una relazione con una sua allieva, Eloisa),    Ivo di Chartres (vescovo, erudito e  scrittore  francese XI sec. ) e da altre collezioni che erano nate copiosamente nel periodo gregoriano, scrisse il famoso Concordia discordantium canonum, passato poi alla storia come Decretum Gratiani.

Bernardo di Chiaravalle

Bernardo di Chiaravalle, santo. Dottore della Chiesa o, come fu detto, l’ultimo dei Padri in ordine di tempo (Fontaines-lès-Dijon 1091-Clairvaux 1153), patrono della Liguria e della città di Avignone. B. nacque nel 1090 al castello di Fontaine-Les-Dijon, villaggio vicino a Digione. Entrò nel monastero benedettino di Cîteaux (Cistercium in latino, da cui cistercensi) fondato nel 1098. Grazie alle sue attività riformatrici, la vita e l’architettura cistercense furono segnate, da quel momento, dalla semplicità e da una severa bellezza. Nel 1115, a 25 anni, lo mandano a fondare un monastero a Clairvaux, campagna disabitata, che diventa la Clara Vallis sua e dei monaci. Ai suoi cistercensi chiede meno funzioni, meno letture e tanto lavoro. Abbiamo di lui 331 sermoni, più 534 lettere, più i trattati famosi: su grazia e libero arbitrio, sul battesimo, sui doveri dei vescovi  e  su Maria madre di Gesù, che egli chiama mediatrice di grazie (ma non riconosce la dottrina dell’Immacolata Concezione).Per la sua devozione alla Madonna e le sue visioni mistiche Dante lo rappresenta come sua guida alla visione finale  negli ultimi canti del Paradiso
Il santo dei Templari. B. divenne il santo dei Templari cui indirizzò un programma di vita, l’Elogio della nuova cavalleria, ottenendone il riconoscimento della Chiesa (1128). I Templari avevano costruito nel 1118 un gruppo spontaneo di penitenti, costituito dai nobili ai quali il re di Gerusalemme Baldovino II aveva dato a disposizione un’ala del suo palazzo perché, essendo vicini al tempio di Salomone, assicurassero il servizio divino. L’ordine dei Templari adottava una vita religiosa di povertà, di obbedienza e di castità, ed assicurava protezione ai pellegrini durante il loro soggiorno in Terra Santa. S. Bernardo tracciò un programma spirituale giustificandone in primo luogo la funzione di militari; i cristiani nei possedimenti d’Oriente erano esposti agli attacchi degli infedeli, per cui legittima era la formazione di un corpo di Polizia, che doveva tuttavia usare la forza il meno possibile. I templari, che erano anche cavalieri, servivano inoltre per proteggere i Luoghi Santi. La diffusione in Occidente dei Templari portò loro ricchezze e potere, cosa che scatenò contro di loro persecuzioni e attacchi da parte di Filippo il Bello re di Francia, il quale li accusava di crimini inesistenti, con lo scopo di impossessarsi dei loro beni. Filippo aveva intenzione di eliminare l’ordine e chiese a tal scopo aiuto al suo amico Papa Clemente V, insediato ad Avignone, che sciolse nel 1312 tutto l’ordine dei Templari.

PUBLIO VIRGILIO MARONE

Vita -Virgilio Marone, Publio poeta latino (Andes odierna Pietole, Mantova, 70 a.C. – Brindisi 19 a.C.) – figlio di un proprietario terriero, non ricco, Virgilio compie i primi suoi studi fino a quindici anni  a Mantova e Cremona, dopodiché si reca, prima a Milano e poi a Roma e a Napoli interessandosi  anche di astronomia, botanica, zoologia, medicina e matematica. Un fatto grave accade al poeta verso l’età di ventotto anni: perde temporaneamente i propri in conseguenza della distribuzione di terre italiche ai reduci dei Filippi, ma grazie all’intervento di Asinio Pollione, governatore della Cisalpina, riesce a riavere i suoi campi paterni. Tra il 34 e il 37 entra a far parte del circolo Mecenate. All’età di cinquantadue anni dopo undici anni di lavoro per la stesura dell’Eneide, non contento della esito finale del poema , parte per la Grecia e l’Asia Minore, dove intende studiare meglio i luoghi in cui è ambientato la prima parte del suo poema, ma improvvisamente a Megara, dopo una passeggiata sotto il suole infuocato, si ammala ed è costretto a tornare in Italia dove muore. Una leggenda vuole che il poeta nel letto di morte, a Brindisi, chiese il manoscritto dell’Eneide per distruggerlo.
Opere:
Bucoliche: opera di poesia composta in tre anni dal 42 al 39 a.C. Il titolo d’insieme Bucolica, “canti dei bovari”, rievoca uno sfondo pastorale dove i pastori sono attori e creatori di poesia
I. Omaggio ad Ottaviano: dialogo fra due pastori, Titiro e Melibeo, oggetto di opposti destini: il primo, beneficato a Roma da un giovane divino (Ottaviano), godrà la sua vita tranquilla; il secondo vagherà lontano, privato dei suoi possedimenti.
IV. Canto celebrativo per la nascita di un fanciullo, che vedrà l’avvento di una nuova “età dell’oro”. (nel medioevo fu interpretata come profezia dell’avvento di Cristo).Georgiche: poema in quattro canti scritto tra il 37 e il 3o a.C. Il primo libro tratta della coltivazione della terra, si iscrive idealmente nel giro delle stagioni durante l’anno, dalla primavera all’inverno. Il secondo libro è il canto della vigna e del dio Bacco, della vitalità misteriosa della natura. Il terzo libro tratta dell’allevamento del bestiame, con commossa partecipazione per l’”umano” esistente in queste creature Nel quarto libro sono cantate le api (sappiamo che il padre di Virgilio era un appassionato apicoltore).
Eneide: poema in dodici canti, i primi sei che riguardano il viaggio di Enea da Troia al Lazio (ispirati dall’Odissea di Omero) e gli ultimi sei che trattano delle battagli di Enea nel Lazio prima di stabilirsi definitivamente (questi canti sono ispirati all’Iliade).L’Eneide è perciò un’opera di consistente significato storico e politico, pur non essendo un poema storico. L’opera lascia il protagonista prima ancora che possa assaporare il suo trionfo e il suo futuro di eroe divinizzato è solo intravisto di scorcio. L’Eneide, è infatti una riflessione sulla storia che porterà alla nascita di Roma. Al centro dell’Eneide abbiamo la riflessione sulla storia dell’umanità, un progressivo cammino verso la realizzazione di un bene sommo: la fondazione di Roma, l’impero romano (in particolare quello di Augusto). Questa idea della storia, proviene da una scuola filosofica, lo stoicismo, una visione positiva della storia. Il destino portava alla realizzazione di cose positive. Accanto a questo tema ritroviamo il concetto di destino. L’Eneide ci mostra come il realizzarsi di quest’ultimo, porti alla morte di molti innocenti. Virgilio ci fa toccare il dolore con il quale queste persone muoiono e ci vuole suggerire un dubbio: questo destino è crudele. Pone anche un interrogativo a cui però non sa dare risposta: qual è la motivazione del dolore dei singoli? E soprattutto c’è un senso? Virgilio si limita solo a mostrare che ci sono cose che non tornano nello stoicismo e lascia aperto questo grande interrogativo, facendo riflettere il lettore sul senso della vita.

Nel VI libro Enea scende agli Inferi (passaggio che ispirò Dante Alighieri) e incontra diverse ombre tra le quali quella del padre Anchise che gli mostra le immagini dei suoi illustri successori, in particolare quelli  che scriveranno la storia di Roma: Romolo, Giulio  Cesare, Augusto…
L’Eneide è un poema in cui, nonostante l’esaltazione della missione civilizzatrice di Roma e dei suoi eroi guerrieri si esprime solidarietà e comprensione nei confronti dei vinti, vittime di un destino avverso e costretti a sacrificare i loro progetti e i loro sentimenti per obbedire al volere inflessibile del Fato. Lo stesso Enea non è un eroe spietato come Achille né  ingannevole e insofferente di vincoli come Ulisse che provocò l’ira di molte divinità, egli mette il suo valore a servizio della volontà degli dei e obbedisce ai loro ordini anche quando questa obbedienza gli costa il sacrificio dei suoi sentimenti (per volere di Giove abbandona la regina Didone che pure amava inducendola al suicidio).

QUINTO ORAZIO FLACCO